Santi & Sposi
GENNAIO
Sommario
Santa Zdislava Madre di famiglia.
San Basilio Magno Vescovo e dottore della Chiesa
SANT’Angela da Foligno Sposa e madre, Terziaria francescana
Sant' Elisabetta Anna Bayley Seton Vedova
Santa Dafrosa (Roma) Sposa di un santo e madre di due sante, martire
Sant'Edoardo III il Confessore Re d'Inghilterra
Beata Marcellina Darowska (Maria Marcellina dell’Immacolata Concezione) Madre, vedova e Fondatrice
Santi Giuliano e Basilissa Martiri in Tebaide
San Giuseppe Tuan Padre di famiglia, martire
Beata Eurosia Fabris Barban sposa e madre, Terziaria francescana
Santa Teresa Kim Vedova e Martire
San Gregorio di Nissa Vescovo sposo di Santa TEoSEBIA
Santa Teosebia moglie di San Gregorio di Nissa
San Pietro Orseolo (Urseolo) sposo, padre e Monaco
Beato Guglielmo (William) Carter Martire
Beato Antonio (Antoine) Fournier Padre di famiglia, martire
Sant' Ilario di Poitiers sposo, padre, Vescovo e dottore della Chiesa
San Pietro di Capitolias sposo, padre, sacerdote e Martire
Santa Ivetta (Iutta) di Huy vedova
Santi Domenico (padre) e Giuseppe Pham Trong Kham e Luca Thin (figlio) Martiri
Sant' Erbino (Ervan) Re di Cornovaglia padre di S. Geraint
Beato Devasahayam (Lazaro) Pillai Martire
Beato Nicola Gross padre di famiglia Martire
Santa Priscilla di Roma Matrona
Beato Giuseppe Tovini sposo, padre, terziario francescano
Santa Leonilla nonna dei Santi Speusippo, Elasippo e Melesippo Martiri
Beata Beatrice II d'Este Monaca
San Volusiano di Tours Vescovo.
Santi MARIO e MARTA, sposi, ABACO e AUDIFACE, figli
San Giovanni Yi Yun-il padre di famiglia e Martire
Santa Teodolinda Regina dei Longobardi
Beata Maria Mancini Madre e monaca
Beato Laszlo Batthyany-Strattmann sposo e padre
Santi Severiano e Aquila Sposi, martiri
Beata Paola Gambara Costa Terziaria francescana
Beato Vincenzo (Wincenty) Lewoniuk sposo e 12 compagni (quasi tuttI sposati) Martiri di Pratulin
Santa Dwyn (Dwynwen) Principessa
Beata Teresa Grillo Michel Vedova e Fondatrice
Beata Eleonora d’Aragona Regina, mercedaria
Santi Senofonte, Maria e figli Martiri
Beata Maria de la Dive Vedova, martire.
Beata Villana Delle Botti Madre di famiglia e terziaria
Santa Batilde Regina dei Franchi
Beato Francesco Taylor Sindaco di Dublino, martire
Beata Ludovica Albertoni Terziaria francescana
Beata Maria Cristina di Savoia Regina della Due Sicilie
Iniziamo l'anno non con una Madre, ma con la Madre!
Maria figlia di Adamo, acconsentendo alla parola divina, diventò madre di Gesù e, abbracciando con tutto l’animo e senza peso alcuno di peccato la volontà salvifica di Dio, consacrò totalmente sé stessa quale Ancella del Signore alla persona e all’opera del figlio suo, servendo al mistero della redenzione sotto di Lui (LG, 56). Nel Concilio di Efeso (anno 431), dove venne affermata la natura umana e divina dell’unica persona del Verbo in Gesù Cristo, venne affermata anche la maternità divina di Maria.
Etimologia: Maria = amata da Dio, dall'egiziano; signora, dall'ebraico
Martirologio Romano: Nell’ottava del Natale del Signore e nel giorno della sua Circoncisione, solennità della santa Madre di Dio, Maria: i Padri del Concilio di Efeso l’acclamarono Theotókos, perché da lei il Verbo prese la carne e il Figlio di Dio abitò in mezzo agli uomini, principe della pace, a cui fu dato il Nome che è al di sopra di ogni nome.
La solennità di Maria SS. Madre di Dio è la prima festa mariana comparsa nella Chiesa occidentale. Originariamente la festa rimpiazzava l'uso pagano delle "strenae" (strenne), i cui riti contrastavano con la santità delle celebrazioni cristiane. Il "Natale Sanctae Mariae" cominciò ad essere celebrato a Roma intorno al VI secolo, probabilmente in concomitanza con la dedicazione di una delle prime chiese mariane di Roma: S. Maria Antiqua al Foro romano, a sud del tempio dei Castori.
La liturgia veniva ricollegata a quella del Natale e il primo gennaio fu chiamato "in octava Domini": in ricordo del rito compiuto otto giorni dopo la nascita di Gesù, veniva proclamato il vangelo della circoncisione, che dava nome anch'essa alla festa che inaugurava l'anno nuovo. La recente riforma del calendario ha riportato al 10 gennaio la festa della maternità divina, che dal 1931 veniva celebrata l'11 ottobre, a ricordo del concilio di Efeso (431), che aveva sancito solennemente una verità tanto cara al popolo cristiano: Maria è vera Madre di Cristo, che è vero Figlio di Dio.
Nestorio aveva osato dichiarare: "Dio ha dunque una madre? Allora non condanniamo la mitologia greca, che attribuisce una madre agli dei "; S. Cirillo di Alessandria però aveva replicato: "Si dirà: la Vergine è madre della divinità? Al che noi rispondiamo: il Verbo vivente, sussistente, è stato generato dalla sostanza medesima di Dio Padre, esiste da tutta l'eternità... Ma nel tempo egli si è fatto carne, perciò si può dire che è nato da donna". Gesù, Figlio di Dio, è nato da Maria.
E’ da questa eccelsa ed esclusiva prerogativa che derivano alla Vergine tutti i titoli di onore che le attribuiamo, anche se possiamo fare tra la santità personale di Maria e la sua maternità divina una distinzione suggerita da Cristo stesso: "Una donna alzò la voce di mezzo alla folla e disse: "Beato il ventre che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte!". Ma egli disse: "Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!"" (Lc 11,27s).
In realtà, "Maria, figlia di Adamo, acconsentendo alla parola divina, diventò madre di Gesù e, abbracciando con tutto l'animo e senza peso alcuno di peccato la volontà salvifica di Dio, consacrò totalmente se stessa quale Ancella del Signore alla persona e all'opera del Figlio suo, servendo al mistero della redenzione sotto di Lui e con Lui, con la grazia di Dio onnipotente" (Lumen Gentium, 56).
Autore: Piero Bargellini
Le fonti la indicano come una donna di straordinaria bellezza e l’iconografia ne dà conto!
Krizanov, Moravia, 1220 - Gabel 1252
Nata a Krizanov in Moravia, fu sposa di un principe della famiglia Lemberk, da cui ebbe quattro figli che educò religiosamente. Indossato l'abito del Terz'Ordine, curò la diffusione dell'Ordine dei Frati Predicatori in Boemia e per essi fece costruire dal marito due conventi. La sua vita fu ricca di carità verso i poveri. Morì a Jablonnè nel 1252.
Martirologio Romano: A Jablonné in Boemia, santa Zdisláva, madre di famiglia, che fu di grande conforto agli afflitti.
È noto che la famiglia cristiana viene posta da tempo sotto la protezione della Sacra Famiglia di Nazareth; addirittura la Chiesa universale vi dedica una solenne attenzione con la prima domenica dopo il Natale. Tuttavia è pure ben consolidato un altro patronato, quello di Santa Zdislava di Lemberk, madre di famiglia esemplare, iscritta al Terz’ordine domenicano, e moglie fedele di un personaggio importante politicamente ma spiritualmente cavaliere di Cristo.
La patrona nacque intorno al 1220 a Krizanov, una cinquantina di chilometri a nord di Brno capitale della Moravia, regione storica attualmente parte della Repubblica Ceca. Al padre Pribyslav, signore castellano rampante, che aveva sposato Sibilla dì origine tedesca, venne poi assegnato il castello di Brno. I due genitori erano cristiani piissimi e fondarono vari monasteri, ebbero altri quattro figli e si adoperarono per sposare Zdislava con Gallo, quel rispettabile sopraccennato feudatario di Lemberk nella Boemia nord-orientale.
I coniugi curarono l’educazione cristiana dei quattro figli, di cui uno morto in giovane età. Su istanza della moglie, particolarmente religiosa e dedita anche all’assistenza dei poveri e dei malati, Gallo fece costruire due monasteri domenicani, di cui uno nella vicina Jablonné con chiesa dedicata a San Lorenzo. Qui la santa donna venne sepolta alla morte avvenuta nel 1252.
La venerazione popolare nei suoi riguardi fu molto diffusa per un secolo e mezzo, confermata dalle cronache del tempo che raccontavano di molti miracoli dovuti alla sua intercessione. Dopo un oscuramento, a seguito soprattutto di agitazioni religiose, essa ebbe un deciso risveglio alla fine del XVI secolo. Il culto ufficiale venne confermato nell’agosto 1907; nel frattempo si erano diffuse anche molte leggende, con un’iconografia nella quale Zdislava veniva spesso raffigurata in abito domenicano con in mano il modello della chiesa dove era sepolta ed in atto di distribuire pane ai poveri.
II 6 aprile 1995 fu approvato il miracolo attribuito alla sua intercessione, necessario, come si sa, per una gloria degli altari più solenne. Fu così che nello stesso anno ad Olomouc, la più bella città a vincolo monumentale della Moravia, oggi abitata da più di centomila persone, papa Giovanni Paolo lI proclamò santa la Zdislava il 21 maggio 1995 a Olomouc in Slovacchia, che per lungo tempo aveva ricevuto gli onori cultuali della beata.
La sua festa liturgica ricorre il 3 gennaio, anche se nei luoghi dell’esistenza terrena viene frequentemente spostata più avanti.
Autore: Mario Benatti
Non è sposato, ma la sua famiglia era intrisa di santità: suo nonno morì martire nella persecuzione di Diocleziano e sua nonna, Santa Macrina, fu discepola di San Gregorio Taumaturgo nel Ponto. Santi furono i suoi genitori Basilio ed Emmelia, che ebbero oltre a Basilio altri cinque figli tra cui San Gregorio, poi vescovo di Nissa, e San Pietro, vescovo di Sebaste, e cinque figlie. La primogenita, Santa Macrina, omonima della nonna, visse nella sua proprietà di Annesi che aveva trasformata in monastero
Cesarea di Cappadocia, attuale Kaysery, Turchia, 330 – 1 gennaio 379
Nato intorno al 330 in Cappadocia, a Cesarea, oggi la città turca di Kaysery, Basilio proveniva da una famiglia dalla profonda spiritualità. Oltre ai genitori anche tre dei suoi nove fratelli sono annoverati tra i santi. Prima di essere vescovo nella sua terra natale, aveva vissuto in Palestina e Egitto. Vi era stato attratto dal richiamo del deserto e della vita monastica. Fu in solitudine che, insieme con Gregorio di Nazianzo conosciuto durante gli studi ad Atene, elaborò la regola per i monaci basiliani, che sarà imitata anche in Occidente. Visse appena 49 anni ma la sua intensa e profonda attività di predicatore gli valsero il titolo di «Magno». Ricevette l'ordinazione sacerdotale verso il 364 da Eusebio di Cesarea cui successe sulla cattedra vescovile nel 370. Durante il servizio episcopale si impegnò attivamente contro l'eresia ariana. Morì l'1 gennaio 379 a Cesarea dove fu sepolto. Tra le sue opere dottrinali si ricorda soprattutto il celebre trattato teologico sullo Spirito Santo. (Avvenire)
Etimologia: Basilio = re, regale, dal greco
Emblema: Bastone pastorale
Martirologio Romano: Memoria dei santi Basilio Magno e Gregorio Nazianzeno, vescovi e dottori della Chiesa. Basilio, vescovo di Cesarea in Cappadocia, detto Magno per dottrina e sapienza, insegnò ai suoi monaci la meditazione delle Scritture e il lavoro nell’obbedienza e nella carità fraterna e ne disciplinò la vita con regole da lui stesso composte; istruì i fedeli con insigni scritti e rifulse per la cura pastorale dei poveri e dei malati; morì il primo di gennaio. Gregorio, suo amico, vescovo di Sásima, quindi di Costantinopoli e infine di Nazianzo, difese con grande ardore la divinità del Verbo e per questo motivo fu chiamato anche il Teologo. Si rallegra la Chiesa nella comune memoria di così grandi dottori.
(1 gennaio: A Cesarea in Cappadocia, nell’odierna Turchia, deposizione di san Basilio, vescovo, la cui memoria si celebra domani).
Il calendario liturgico latino fa oggi memoria di due Padri e Dottori della Chiesa, San Gregorio Nazianzeno e San Basilio Magno, intimi amici, che parteciparono alla medesima ansia di santità, ebbero un’analoga formazione culturale e nutrirono entrambi l’aspirazione alla vita monastica.
La presente scheda agiografica vuole soffermarsi in particolar modo sul secondo, San Basilio. Questi nacque a Cesarea di Cappadocia, attuale Kaysery in Turchia, verso il 330 da un ricco rètore e avvocato. La sua famiglia era intrisa di santità: suo nonno morì martire nella persecuzione di Diocleziano e sua nonna, Santa Macrina, fu discepola di San Gregorio Taumaturgo nel Ponto. Santi furono i suoi genitori Basilio ed Emmelia, che ebbero oltre a Basilio altri cinque figli tra cui San Gregorio, poi vescovo di Nissa, e San Pietro, vescovo di Sebaste, e cinque figlie. La primogenita, Santa Macrina, omonima della nonna, visse nella sua proprietà di Annesi che aveva trasformata in monastero.
Il padre di Basilio, che pare si fosse trasferito a Neocesarea, fu primo maestro del figlio, che continuò poi i suoi studi a Cesarea, a Costantinopoli ed infine ad Atene, capitale culturale del mondo ellenico e pagano, dove legò un’intima amicizia con il suo conterraneo San Gregorio Nazianzeno. Ritornato in patria verso il 356, insegnò retorica e coltivò sogni di gloria, ma infine cedette alle esortazioni della sorella e si diede alla vita ascetica. Secondo gli usi del tempo ricevette finalmente il battesimo ed intraprese la visita dei grandi asceti dell’Egitto, della Palestina e della Mesopotamia, al fine di farsi un’idea circa il loro stile di vita. Quando fece ritorno in patria non esitò a distribuire parte dei suoi beni ai poveri ed a ritirarsi in solitudine sulle rive dell’Iris, di fronte ad Annosi, presso Neocesarea. Ai suoi seguaci, presenti con lui nel cenobio, diede una solida formazione morale e ascetica, prima con le Grandi Regole e poi con le Piccole Regole, concernenti i doveri e le virtù dei monaci, che gli valsero l’appellativo di “legislatore del monachesimo orientale”.
Basilio restò per cinque anni nella solitudine, finché il suo vescovo Eusebio, eletto ancora catecumeno, gli conferì l’ordinazione sacerdotale perché potesse coadiuvarlo nel difficile ministero. Preferì tuttavia ritornare ben presto alla vita solitaria, non appena si accorse di avere suscitato con il suo prestigio la gelosia del poco istruito pastore. Quando sotto l’imperatore ariano Valente l’ortodossia si vide minacciata, l’intercessione di San Gregorio Nazianzeno ottenne il ritorno dell’amico a Cesarea, che poté così lavorare proficuamente per il mantenimento della fede, il regolamento della liturgia ed il rimedio ai danni cagionati da una spaventosa carestia. Nel 370 successe ad Eusebio, divenuto ormai celebre per la sua “Storia ecclesiastica” in dieci volumi, nella sede metropolitana di Cesarea, che contava una cinquantina di diocesi suffraganee suddivise in undici province. Malgrado la breve durata del suo episcopato, l’azione pastorale di San Basilio fu così molteplice e feconda da meritargli dai contemporanei il titolo di “Magno”, che come è ben noto è stato riservato nel corso della storia a ben pochi personaggi su scala mondiale, quali il re macedone Alessandro, gli imperatori romani Costantino e Teodosio, il primo sacro romano imperatore Carlo ed i papi Leone I, Gregorio I e Giovanni Paolo II.
A quel tempo infuriava la lotta a favore dell’eresiarca Ario. Valente tornò a Cesarea nel 371 e tentò ripetutamente di indurre Basilio a concessioni, ma non osò ricorrere alla violenza contro di lui. Per diminuirne però l’influenza, divise in due parti la Cappadocia. Per difendere i diritti della sua sede Basilio creò allora alcune diocesi e consacrò l’amico Gregorio a vescovo di Sàsima, borgo importante per le comunicazioni, ma costui assai riluttante anziché prenderne possesso preferì fuggire nella solitudine.
Basilio si rivelò abile amministratore del suo territorio: con mano ferma seppe correggere abusi e bizzarrie, trasformare preti e monaci in modelli di santità, difendere le immunità ecclesiastiche di fronte al potere civile e proteggere i poveri e gli indifesi. Manifestò particolarmente il suo zelo ed il suo genio nell’organizzazione delle attività caritatevoli. In ogni circoscrizione amministrata da un corepiscopo, previde l’istituzione di un ospizio. A Cesarea costruì addirittura una cittadella della carità, quasi un “Cottolengo” d’altri tempi, con funzioni di locanda, ospizio, ospedale e lebbrosario, soprannominata dal popolo “Basiliadc”. Nonostante questa fondazione godesse di diffidenza da parte del potere civile, il santo vescovo acquistò un tale ascendente che, lasciando da parte i loro dissensi religiosi, Valente lo incaricò di ristabilire in Armenia la concordia tra i vescovi e provvedere alle sedi vacanti.
Parecchi vescovi suffraganei, tuttavia, invidiosi della sua elevazione, si sottrassero al suo influsso ed insinuarono persino dubbi sulla sua ortodossia. Basilio scrisse allora il trattato sullo Spirito Santo, per dimostrare contro gli ariani che ad egli è dovuto lo stesso onore che al Padre e al Figlio. A più riprese dal 371 al 376 intrattenne una fitta corrispondenza con il papa San Damaso e con altri vescovi occidentali per implorare il loro intervento, desolato per la diffusione dell’eresia e per la competizione di Melezio e di Paolino riguardo alla sede patriarcale di Antiochia. A Roma però si sosteneva Paolino, mentre i più illustri vescovi orientali erano partigiani dichiarati di Melezio e Basilio se ne lamentò fortemente.
L’ora della distensione, tanto sospirata dal santo, arrivò con la morte di Valente, caduto nel 378 in lotta contro i Goti. Il suo successore, San Teodosio I il Grande, ristabilì la libertà religiosa e pose sulla sede di Costantinopoli San Gregorio Nazianzeno, su proposta della Chiesa latina e con l’appoggio di San Basilio. Fu questo l’ultimo atto ufficiale del grande uomo di azione e di pensiero poiché, sfinito dalle preoccupazioni, dalle austerità e dalle malattie, morì il 1° gennaio 379. I suoi funerali, officiati a Cesarea di Cappadocia, furono un vero trionfo.
San Gregorio Nazianzeno dipinge l’amico dal volto sempre pallido, dall’espressione pensosa, resa ancor più tale dalla barba di monaco e filosofo. Di grandissimo interesse è l’Epistolario di Basilio che consta di ben 365 lettere, preziose per un’approfondita conoscenza della sua dottrina, della sua vita e della storia della Chiesa di quel tempo. Dal punto di vista teologico fu suo grande merito aver definitivamente formulato il dogma trinitario con la celebre espressione: “Una sola essenza in tre ipostasi”. Dal punto di vista letterario Basilio è indubbiamente il più classico tra i Padri greci, benché le sue opere siano state composta anzitutto per soddisfare necessità pratiche immediate. Anche dai suoi discorsi emerge costantemente la figura del pastore attento ai bisogni delle anime e presenta nella forma più adatta al grande pubblico la dottrina e la morale cristiana, avvalendosi della sua vasta cultura e dell’accurata formazione retorica.
San Basilio Magno è commemorato dal Martyrologium Romanum al 1° gennaio, anniversario della sua nascita al cielo, mentre il giorno seguente si celebre la sua memoria liturgica comunemente con il suo amico San Gregorio Nazianzeno.
Autore: Fabio Arduino
Foligno, 1248 - 1309
Dopo essersi recata ad Assisi ed aver avuto esperienze mistiche avviò un'intensa attività apostolica per aiutare il prossimo e soprattutto i suoi concittadini affetti da lebbra. Una volta morti marito e figli diede tutti i suoi averi ai poveri ed entrò nel Terz'Ordine Francescano: da quel momento visse in modo cristocentrico, ovvero tramite l'amore giunge all'identica mistica con Cristo. Per i suoi scritti assai profondi è stata chiamata "maestra di teologia". Il 3 aprile 1701 furono concessi Messa ed Ufficio propri in onore della Beata. Infine il 9 ottobre 2013 Papa Francesco, accogliendo la relazione del Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, ha iscritto Angela da Foligno nel catalogo dei Santi, estendendone il Culto liturgico alla Chiesa Universale.
Etimologia: Angela = messaggero, nunzio, dal greco
Martirologio Romano: A Foligno in Umbria, beata Angela, che, morti il marito e i figli, seguendo le orme di san Francesco, si diede completamente a Dio e affidò alla propria autobiografia le sue profonde esperienze di vita mistica.
La Chiesa le attribuisce il titolo di beata e la sua memoria viene celebrata oggi dall'Ordine francescano della città di Foligno, ma il popolo la invoca da secoli col titolo di santa. Angela da Foligno, una delle prime mistiche italiane, nacque nella medievale cittadina umbra nel 1248. In gioventù, come la coetanea Margherita da Cortona, indulse alle vanità femminili, vivendo in tranquilla agiatezza in una casa non fastosa ma decorosa, accanto al marito e ai figli. Non mancarono anche gravi colpe morali culminate in una serie di confessioni e di comunioni sacrileghe. All'età di 37 anni, però, mutò radicalmente le sue abitudini di vita. Provata dal dolore con la perdita del marito e dei figli, mostrò in queste tragiche circostanze una forza d'animo non comune. Era l'anno 1285: S. Francesco le apparve in sogno e la esortò a percorrere con coraggio la via della perfezione. Angela entrò nel Terz'ordine francescano e nel 1291 emise i voti religiosi, intraprendendo un pellegrinaggio ad Assisi che doveva segnare un'orma profonda nella sua anima. Fu durante questo viaggio che Angela fece sconcertanti ed esaltanti esperienze mistiche, di cui fu stupito testimone anche il suo parente e confessore, il B. Arnaldo da Foligno: questi, temendo si trattasse di fenomeni dovuti a suggestioni del maligno, le impose di dettargli le sue esperienze interiori. Il bisogno di far luce sulle profondità di quest'anima squassata dalla grazia diede così origine ad uno dei più preziosi libri sulle esperienze mistiche di un'anima particolarmente favorita da Dio. L'autobiografia che la beata dettava in dialetto umbro veniva immediatamente resa in un limpido latino scolastico. In "trenta passi" Angela dettò quanto avveniva nella sua anima, dal momento della conversione al 1296, quando tali manifestazioni mistiche si fecero più frammentarie e lasciarono campo a nuove manifestazioni spirituali, in particolare quella della " maternità spirituale " che raccolse intorno alla "Lella da Foligno" un vero cenacolo di anime desiderose di perfezione.
A loro la beata inviava numerose lettere e per loro redigeva anche le istruzioni salutifere. La povertà, l'umiltà, la carità, la pace erano i suoi grandi temi: "Lo sommo bene dell'anima è pace verace e perfetta... Chi vuole dunque perfetto riposo, studi d'amare Iddio con tutto cuore, perciò che in tale cuore abita Iddio, il quale solo dà e può la pace dare". La "magistra theologorum" morì a Foligno nel 1309.
Autore: Piero Bargellini
-----------------------------------
Da alcuni anni ormai non è infrequente imbattersi in articoli di giornali e riviste di un certo spessore culturale nella ‘notizia’ del ritorno del sacro, della rinascita della religione, del risveglio religioso... del «ritorno di Dio» come se questi si fosse ritirato da questo mondo, «disgustato» dal comportamento dell’uomo (vedi ideologie e guerre del secolo XX). Sembra strano quando per decenni si era posto l’accento più sull’eclisse di Dio, sul tramonto delle religioni definite istituzionali o strutturate, sulla fine del sacro (e quindi di Dio) come bisogno esistenziale dell’uomo moderno impegnato nel transito dalla modernità alla post modernità. I giochi sembravano chiusi: Dio fuori dalla scacchiera della storia e del pensiero umano, fuori dall’organigramma di quelli da consultare. Non c’era più posto per lui nella nostra società secolarizzata, iper tecnologica, guidata e dominata dalla razionalità tecnico scientifica. E invece no. Non solo si dice che c’è un certo ritorno del sacro, ma addirittura si parla anche del nascere (o ri-nascere?) dell’interesse per la mistica. Sì, addirittura della mistica. Ma di che si tratta?
Le due mistiche
Ci sono due tipi di mistica. La prima è quella a cui ci si riferisce spesso nelle riviste (esplicitamente non religiose) e qui fa capolino la New Age (seguita dalla Next Age) di cui apparentemente oggi si parla di meno ma solo perché molti suoi concetti sono già stati assimilati e sono parte della cultura dominante.
Ebbene in queste forme di neomisticismo l’io è considerato l’autorità finale, sia rispetto alla pratica religiosa sia rispetto ad un credo già strutturato, come nel Cristianesimo. Siamo di fronte alla religione «fai-da-te», ad una religiosità senza Dio, creata su misura del proprio «io» e dei propri bisogni. Tanto che si potrebbe cambiare il primo dei Comandamenti in «Non avrai altro dio che il tuo io». È una mistica insomma senza un riferimento al Totalmente Altro, che è Dio (come nel Cristianesimo), senza un Tu Trascendentale con cui confrontarsi, seguendo il quale ri-programmarsi e a cui finalmente affidarsi.
Ben diverso il secondo concetto di mistica, quello cristiano.
Così scrive il Catechismo della Chiesa Cattolica (2014):
«Il progresso spirituale tende all’unione sempre più intima con Cristo. Questa unione si chiama “mistica”, perché partecipa al mistero di Cristo mediante i sacramenti – “i santi misteri” – e, in lui, al mistero della SS. Trinità. Dio ci chiama tutti a questa unione intima con lui, anche se soltanto ad alcuni sono concesse grazie speciali o segni straordinari di questa vita mistica, allo scopo di rendere manifesto il dono gratuito fatto a tutti».
Come dire tutti chiamati alla vita mistica, ma pochi (purtroppo?) gli eletti. Tutti i credenti infatti possono avere il sentimento e la convinzione della presenza immediata e trasformante di Dio nel loro cuore (specialmente dopo certe esperienze spirituali forti), poi magari tutto si indebolisce o svanisce divorato dalla fretta e dalle preoccupazioni quotidiane. Invece l’unione spirituale o mistica di quelli che chiamiamo... i mistici (santi e sante) non è passeggera, non è contingente o parziale ma abituale, è inoltre costante o per lo meno ritrovata con facilità lungo la giornata.
I mistici pur immersi nella normale quotidianità sembrano sempre animati e guidati da una luce intima trascendente, che ridona le giuste proporzioni a tutto il resto che è e rimane per loro terreno, parziale, contingente e transeunte. E di questo processo Dio ha l’iniziativa. È Lui che dilata l’anima e la guida, è sempre Lui che la orienta, la rinforza e la sostiene. Lui solo ne è l’alimento costante e la gioia totale e totalizzante.
Il mistico è tutt’altro che un alienato
È chiaro (e si evince dalla storia dei grandi mistici della Chiesa Cattolica) che questi uomini e donne erano tutt’altro che alienati, frustrati, umanamente insoddisfatti, ripiegati su se stessi o concentrati sul proprio io. Vivevano di Dio e per Dio, ri-centrati su di Lui, vivevano con Dio attingendo al suo Amore, che naturalmente manifestavano sul prossimo in mille modi e in molteplici attività. Dio era per loro un fuoco interiore incontenibile (come per il profeta Geremia), che li portava a «bruciare» di esso e con esso tutti quelli che avvicinavano.
Per dirla col filosofo H. Bergson:
«L’amore che lo (il mistico) consuma non è più semplicemente l’amore di un uomo verso Dio, è l’amore di Dio per tutti gli uomini. Attraverso Dio, con Dio, egli ama tutta l’umanità di un amore divino...».
L’incontro con Dio e con Cristo non depaupera o depotenzia assolutamente il mistico ma lo arricchisce e dà un’altra dimensione al suo essere uomo o donna.
«L’umanità dei mistici viene come potenziata dall’incontro del mistico stesso con Cristo: attraverso l’esperienza di Cristo egli plasma ulteriormente il proprio profilo umano... Ne risulta sempre che l’incontro personale con il Dio-Uno in Gesù Cristo non sminuisce la personalità ma la rafforza» (Joseph Sudbrack).
Questa lunga introduzione per capire meglio la figura della Beata Angela da Foligno, una mistica contemporanea di Dante e di Jacopone da Todi, vissuta nella verde Umbria poco tempo dopo il grande Francesco d’Assisi. Tutto per comprendere e assimilare il suo messaggio spirituale, valido ancora oggi.
Angela vide la luce a Foligno nel 1248, in una famiglia ricca di beni materiali. Lei stessa visse nel benessere, negli agi e piaceri del tempo. Si sa anche con certezza che fu sposata ed ebbe figli e che visse con la madre che soddisfaceva tutti i suoi capricci, come lei stessa dirà.
Intanto in quegli anni ci fu una notevole fioritura del Terz’Ordine di San Francesco, ed il messaggio del Poverello d’Assisi era presente anche a Foligno. Poi in città ci fu anche l’esempio di un ricco possidente, tale Pietro Crisi, che aveva lasciato tutte le ricchezze e si era fatto penitente, tra il disprezzo dei ricchi della città e anche le beffe della famiglia di Angela.
Il mio posto è nel mondo
Come disse lei stessa in quegli anni cominciò a «conoscere il peccato». Andò anche a confessarsi ma «la vergogna le impedì di fare una confessione completa e per questo rimase nel tormento». Finché tra le lacrime pregò San Francesco che le apparve nel sogno rassicurandola che avrebbe conosciuto la misericordia di Dio. E la pace arrivò attraverso una confessione totale. Siamo nell’anno 1285 e Angela aveva 37 anni: quindi una donna matura, non una ragazzina sprovveduta.
Iniziò così una vita di austera penitenza (l’esempio di Francesco la guidava) puntando le proprie energie sulla povertà in particolare su tre aspetti: povertà dalle cose, povertà dagli affetti, povertà da se stessa. Cominciò dai vestiti, dal vitto, dalle varie acconciature. Dovette anche affrontare la ostilità, gli ostacoli e le ingiurie della famiglia: marito, figli e madre stessa. Tutti a remare contro. Ma Angela continuò nella via e nella vita di povertà che ormai si era tracciata.
Lei perseverò anche quando, in breve tempo le morirono madre, marito e figli. Rimasta sola continuò sempre più decisa il proprio tracciato esistenziale alla sequela di Cristo povero. Vendette quasi tutti i beni e cominciò a passare ore in ginocchio davanti al Crocifisso, nutrendosi quotidianamente della Scrittura.
Al ritorno da un pellegrinaggio a San Pietro a Roma vendette anche un cascinale che possedeva.
Accettata nel Terz’Ordine francescano, decise di nuovo un pellegrinaggio a Assisi per «consultarsi» con Francesco. Durante il viaggio si fermò dalla sua amica badessa del monastero di Vallegloria che le chiese se voleva rimanere con loro. Ma Angela, pensando anche agli amici che l’accompagnavano (un piccolo cenacolo di «filioli»), rispose: «Il mio posto è nel mondo». Aggiungendo che intendeva rimanere e fare penitenza nella città dove aveva peccato.
«Amore non conosciuto perché mi lasci?
Siamo nel 1291, a sei anni dalla conversione. Un anno centrale e decisivo per Angela e per il suo cammino spirituale. È l’avvenimento dell’esperienza mistica di Assisi che la segnerà per sempre. Cosa successe?
Come lei stessa narrò a frate Arnaldo, suo confessore (che poi scrisse il Memoriale) lungo il cammino verso Assisi Angela ebbe un lungo dialogo con lo Spirito Santo, e poi con il Cristo. Al pomeriggio tornò nella chiesa di San Francesco e qui ebbe una travolgente esperienza mistica di Dio Trinità, della sua immensità e del suo Amore.
E poiché io – frate scrittore – qui le chiedevo e le dicevo: “Cosa hai visto?, essa rispose. Dicendo: “Ho visto una cosa piena, una maestà immensa, che non so dire, ma mi sembrava che era ogni bene. E mi disse molte parole di dolcezza quando partì e con immensa soavità e partì piano, con lentezza. E allora, dopo la sua partenza, cominciai a strillare ad alta voce – o urlare – e senza alcuna vergogna strillavo e urlavo, dicendo questa parola, cioè: “Amore non conosciuto perché? Cioè, perché mi lasci? Ma non potevo dire – o non dicevo – di più; gridavo solo senza vergogna la predetta parola, cioè: “Amore non conosciuto, e perché e perché e perché”».
Oltre ad una certa Masazuola (che Angela chiama «la mia compagna» e si tratta della beata Pasqualina da Foligno) aveva attirato attorno a sé un piccolo cenacolo di «figli» che trovarono in lei una guida spirituale ed una vera maestra nel riconoscere la via della croce, oltre che un esempio ed un sostegno nel percorrerla con decisione, in povertà e in preghiera. Angela morì il 4 gennaio 1309, ma il suo ricordo ed il suo insegnamento attraversarono i secoli. Tra i tanti che la «conobbero», ricordiamo Teresa d’Avila (grande mistica del 1500) ed Elisabetta della Trinità (una mistica morta nel 1906 e beatificata nel 1984) che apprezzarono il messaggio. Valido per la verità ancora oggi.
Quale messaggio? Sergio Andreoli, studioso della Beata, lo sintetizza affermando che la spiritualità di Angela parte dall’affermazione centrale che «Dio è tutto Amore e perciò ama in modo totale» e che per corrispondere a questo amore non si dovrà fare altro che seguire
il Cristo «che si è fatto e si fa ancora via in questo mondo; via... veracissima e diritta e breve».
Angela ha mostrato di aver chiaramente compreso che la profonda comunione con Dio non è un’utopia, ma una possibilità offerta che viene impedita solo dal peccato: di qui la necessità di una costante e severa mortificazione per aderire all’amore di Dio, che è ogni bene e gioia per l’anima. Angela inoltre ha capito che questa unione profonda si realizza specialmente nell’Eucarestia, espressione altissima e misteriosa dell’Amore di Cristo per noi. Un’altra costante della sua vita fu la meditazione dei misteri di Cristo, particolarmente della sua Passione e Morte (insieme a Maria di Nazaret ai piedi della Croce), pratica, secondo lei, molto fruttuosa per rimanere in comunione con Dio e per perseverare nella donazione a Dio e al prossimo.
Sappiamo tutti che non c’è vera vita spirituale senza l’umiltà e senza la preghiera. Questa può essere corporale (vocale) mentale («quando non si pensa nient’altro che a Dio») e soprannaturale (o di contemplazione).
«In queste tre scuole uno conosce sé e Dio; e per il fatto che conosce, ama; e perché ama, desidera avere ciò che ama. E questo è il segno del vero amore: che chi ama non trasforma parte di sé, ma tutto sé nell’Amato».
Considerazioni queste che ritengo sempre attuali per tutti: per chi comincia il proprio cammino spirituale, e per chi è già avanti e con la guida dello Spirito, vuole continuare l’avventura della conoscenza dell’Amore di Dio nella sua vita, seguendo Cristo «la via breve».
Autore: Mario Scudu sdb
New York, 28 agosto 1774 - 4 gennaio 1821
Originaria di New York, figlia di un medico, Elisabetta Anna Bayley Seton, è nota per aver fondato le «Suore delle carità di san Giuseppe», Congregazione religiosa molto diffusa negli Stati Uniti. Nata il 28 agosto 1774, era di confessione episcopaliana ma dopo la morte del marito da cui aveva avuto 5 figli si convertì al cattolicesimo. Le Sister of charity come vengono chiamate negli Stati Uniti, rappresentarono la prima Congregazione femminile americana. Furono costituite il 1 giugno 1809 e la futura santa ne fu Superiora generale per quasi un decennio dedicandosi con grande impegno al servizio dei poveri e dei sofferenti. Parallelamente s'impegnò con grande dedizione alle scuole parrocchiali. L'Ordine crebbe rapidamente e il 17 gennaio 19812 ottenne l'autorizzazione a seguire, come regola, quello delle suore di san Vincenzo De' Paoli. Elisabetta Anna Bayley vedova Seton morì il 4 gennaio 1821 a 46 anni. Beatificata nel 1963 da Papa Giovanni XXIII, fu canonizzata il 14 settembre 1975 da Paolo VI. (Avvenire)
Etimologia: Elisabetta = Dio è il mio giuramento, dall'ebraico
Martirologio Romano: A Emmetsburg nel Maryland negli Stati Uniti d’America, santa Elisabetta Anna Seton: rimasta vedova, abbracciò la fede cattolica, dedicandosi con sollecitudine all’educazione delle fanciulle e al sostentamento dei ragazzi poveri, insieme con le Suore della Congregazione della Carità di San Giuseppe da lei fondata.
S. Elisabetta Anna Bayley Seton, canonizzata il 14 settembre 1975, nacque a New York il 28 agosto 1774. Il 24 agosto 1794 celebrò le nozze a New York con William Magee Seton, con il quale ebbe quattro figli: Anna Maria, William, Richard e Rebecca.
Il 27 dicembre 1803 la Seton rimase vedova. Nell’aprile del 1804 ritornò a New York, dopo un soggiorno in Italia nella città di Livorno. Il 4 marzo del 1805 si convertì al cattolicesimo. Dopo aver aperto una scuola femminile nel 1808 a Baltimora insieme a Cecilia O’Conway di Filadelfia, la Santa ed altre consorelle, il 1 giugno del 1809, indossarono l’abito religioso della prima congregazione femminile americana: le Suore di Carità di San Giuseppe. L’istituzione progredì rapidamente. Il 17 gennaio 1812 le nuove suore ottennero l’approvazione per applicare, come loro regola, quella delle Suore di S. Vincenzo de’ Paoli.
La madre Seton morì il 4 gennaio 1821.
Il 28 febbraio 1840 iniziò il processo per la beatificazione e canonizzazione; il 18 settembre 1959 venne dichiarata “Venerabile”, il 17 marzo 1963 fu proclamata Beata dal papa Giovanni XXIII.
La sua memoria liturgica si celebra nel suo dies natalis.
La canonizzazione della Seton fu molto significativa. In lei fu esaltata la donna: vergine, sposa, vedova e consacrata. Ecco le parole del papa Paolo VI:
"E’ la prima degli Stati Uniti d’America glorificata da questo incomparabile titolo. Ma che vuol dire: “è Santa”? Noi abbiamo tutti facilmente l’intuizione circa il significato di questa superlativa qualifica; ma ci è poi difficile farne un’analisi esatta; Santa vuol dire perfetta, di una perfezione, che raggiunge il livello più alto che un essere umano possa conseguire. Santa è una creatura umana nella pienezza della sua conformità alla volontà di Dio. Santa è un’anima in cui ogni peccato, principio di morte, sia cancellato, e sostituito da uno splendore vivente di grazia divina. [...] La Seton è americana. Lo diciamo tutti con letizia spirituale, e con intenzione celebrativa della terra e della Nazione, da cui la Seton, primo fiore dell’albo dei Santi, meravigliosamente germogliò. [...] Poi: la Seton nacque, crebbe e fu educata religiosamente a New York nella Comunità Episcopaliana. A questa Chiesa va il merito d’avere svegliato e alimentato il senso religioso e il sentimento cristiano. [...] Noi riconosciamo volentieri questo merito e ben sapendo quanto sia costato a Elizabeth il passaggio alla Chiesa cattolica. [...Trovò] naturale conservare quanto di buono l’appartenenza alla fervorosa Comunità Episcopaliana le aveva insegnato, in tante belle espressioni della pietà religiosa specialmente, e abbia sempre attinto fedeltà di stima e di affetto per le persone, da cui tale professione cattolica l’aveva dolorosamente separata. È motivo per noi di letizia e presagio di sempre migliori rapporti ecumenici notare la presenza a questa cerimonia di distinte personalità Episcopaliane, alle quali, quasi interpretando il cuore della nuova Santa, porgiamo il nostro devoto e augurale saluto. [...] La Seton fu madre di famiglia e simultaneamente fondatrice della prima Congregazione religiosa femminile negli Stati Uniti. Sebbene non unica e non nuova questa sua condizione sociale ed ecclesiale (...), essa distingue in modo particolare (...) per la sua piena femminilità, tanto che, nel momento in cui una Donna viene elevata ai supremi onori da parte della Chiesa cattolica, piace a Noi rilevare la felice coincidenza tra questo evento e l’iniziativa delle Nazioni Unite: l’Anno Internazionale della Donna. Tale programma tende a favorire la consapevolezza del dovere, che su tutti incombe, di riconoscere la vera funzione della donna nel mondo e di contribuire alla sua autentica promozione nella società. Godiamo, altresì, del vincolo che in tal modo si è stabilito tra questo programma e l’odierna canonizzazione, nella quale la Chiesa esalta al massimo grado Elizabeth Ann Bayley Seton, elogiando il personale ed eccezionale contributo da lei reso come donna: moglie, cioè e madre e vedova e religiosa!". Nelle parole del pontefice non possiamo non notare il tono fortemente ecumenico e di grande fraternità, che ci ricorda i risvolti successivi nella dimensione ecumenica della Chiesa Cattolica, presenti nella Ut unum sint di Giovanni Paolo II, che fanno di Paolo VI, oltre che il "cantore dei Santi", anche, il precursore del cammino ecumenico postconciliare.
Autore: Don Marco Grenci
Roma, IV secolo
Santa Dafrosa, martire romana al tempo di Giuliano l’Apostata, fu moglie di San Flaviano e madre delle sante Bibiana e Demetria. Solo in passato fu annoverata nel martirologio romano e le sue reliquie riposano con quelle delle figlie.
Etimologia: Dafrosa, di origine siriana, 'cinta di rose'
Assai difficile è delineare quale personaggio storico Santa Dafrosa, martire romana del IV secolo, che neppure il nuovo Martyrologium Romanum ha forse ritenuto opportuno ancora riportare. Oggi dell’intera famiglia solamente la figlia Bibiana compare ancora sul martirologio della Chiesa Cattolica. Nelle passate edizioni la santa era invece ancora così commemorata al 4 gennaio: “A Roma la beata Dafrosa, moglie di san Flaviano Martire e madre delle sante Bibiana e Demetria, Vergini e Martiri, la quale, dopo l'uccisione di suo marito, fu dapprima mandata in esilio, e poi decapitata sotto Giuliano”.
La tradizione la vuole dunque moglie di San Flaviano (22 dicembre) e madre delle sante Bibiana (2 dicembre) e Demetria (21 giugno). Dafrosa visse a Roma nel IV secolo, al tempo dell’imperatore Giuliano l’Apostata e proprio da questi Dafrosa e la sua famiglia sarebbero stati condannati a morte. Nella “Passio Sanctae Bibianae” risalente al VII secolo si legge che il governatore Aproniano, dopo aver condannato a morte i coniugi Flaviano e Dafrosa, essendo ormai certo di potersi impossessare del loro patrimonio, tentò di costringere all’apostasia anche le due giovani figlie. Demetria fu rinchiusa in carcere e morì prima ancora di subire il martirio, sorte che invece subì la sorella Bibiana.
Il corpo di Santa Bibiana fu allora sepolto accanto alla tomba dei genitori e della sorella, preso la loro abitazione sull’Esquilino, dove in seguito per volere di Papa Simplicio fu innalzata una cappella e più tardi l’attuale basilica. Le reliquie di San Flaviano presero poi strade diverse e sono oggi venerate presso la cittadina laziale di Montefiascone. I corpi di Dafrosa e delle due figlie invece furono rinvenuti nel 1624 e ricollocati due anni dopo dal pontefice Urbano VIII in tre reliquiari. Sono ancora oggi conservate nel sarcofago costantiniano, in alabastro orientale, sotto l’altare maggiore della chiesa di Santa Bibiana. Parte delle reliquie di Santa Dafrosa sono invece custodite nella patriarcale basilica di Santa Maria Maggiore, dove il 4 gennaio veniva abitualmente celebrata la sua festa.
Occorre infine ricordare che i santi Flaviano e Dafrosa non sono che una delle numerose coppie che la Chiesa nel corso dei secoli ha considerato degne dell’aureola della santità, anche se si tratta purtroppo di casi solitamente poco celebri ed offuscati da grandi figure di santi vescovi, sacerdoti e suore, magari fondatori di ordini religiosi. Senza nulla togliere a questi ultimi, occorre però riconoscere come possano invece essere considerati modelli più vicini alle famiglie tutti quei coniugi che hanno fatto del loro matrimonio la strada per raggiungere la santità. A tale scopo il nuovo Rito del Matrimonio ha inserito le Litanie dei Santi Sposi, includendovi anche una coppia di martiri romani, Mario e Marta, che proprio come Dafrosa e Flaviano non esitarono a versare il loro sangue per testimoniare la loro fede cristiana.
Autore: Fabio Arduino
4 gennaio + 745 circa
Nata nella città di Gand in Belgio, soffrì pazientemente i maltrattamenti del suo sposo e rimasta vedova, condusse una vita di intensa pietà e penitenza.
Martirologio Romano: A Bruay-sur-l’Escaut vicino a Valencienne nell’Artois in Neustria, nell’odierna Francia, santa Faraílde, vedova, che, obbligata a sposarsi con un uomo violento, si tramanda che abbia abbracciato una vita di preghiera e austerità fino alla vecchiaia.
Santa Farailde è una delle antiche patrone della città belga di Gand, ma nonostante ciò sul suo conto sono state tramandate esclusivamente notizie leggendarie. Nativa appunto diGand, fu data in sposa contro la sua volontà ad un ricco pretendente che la trattò brutalmente, forse perché ella, che aveva consacrato a Dio la sua verginità, preferiva trascorrere le notti in preghiera nelle chiese della città piuttosto che nel letto nuziale. Farailde rimase ben presto vedova, titolo col quale è commemorata dal Martyrologium Romanum, nonostante la tradizione l’abbia da sempre considerata vergine. Il nome di questa santa, popolarissimo nelle Fiandre, varia secondo i vari dialetti locali: Varelde, Verylde o Veerle. Sovente viene raffigurata insieme ad un’oca, in quanto il nome della sua città natia in fiammingo ed in tedesco significa proprio oca. Viene inoltre raffigurata con un pane, in ricordo di un suo miracolo, quando mutò in pietre i pani che una donna avara aveva rifiutato di dare ad un mendicante. E’ inoltre invocata dalle madri preoccupate per la salute del loro bambini e contro il mal di denti. Una leggenda vuole che per abbeverare dei mietitori assetati, fece sgorgare una sorgente, le cui acque furono considerate terapeutiche.
Autore: Fabio Arduino
Oxford, Inghilterra, 1004/1005 - Londra, Inghilterra, 5 gennaio 1066
Normanno da parte di madre, nel primo periodo la sua vita, visse in esilio in Francia per sfuggire all'invasione danese. Incoronato re d'Inghilterra nel 1043, si trovò a far da mediatore, con grandi difficoltà ed insuccessi, fra i Normanni e i Sassoni. Per spirito di conciliazione, sposò Edith, la figlia colta e intelligente del suo principale avversario politico. Il matrimonio, nonostante inizialmente fosse stato dettato dalla ragion di Stato, fu caratterizzato da un profondo accordo. Mite e generoso, Edoardo lasciò una traccia indelebile nel popolo inglese che lo venerò non solo per alcuni saggi provvedimenti amministrativi ma, principalmente, per la sua bontà, per la carità verso coloro che avevano bisogno e per la santità della sua vita. A lui si deve la restaurazione del monastero di Westminster.
Etimologia: Edoardo = che si cura della proprietà, dal tedesco
Emblema: Corona, Anello
Martirologio Romano: A Londra in Inghilterra, sant’Edoardo, detto il Confessore: re degli Angli, amatissimo dal suo popolo per la sua grande carità, assicurò la pace al suo regno e promosse con tenacia la comunione con la sede di Roma.
Edoardo III il Confessore, re d’Inghilterra, è il santo più celebre a portare tale nome, insieme con il suo avo, Sant’Edoardo II il Martire. Il futuro Edoardo III nacque nei pressi di Oxford tra il 1004 ed il 1005 da Etelredo II lo Sconsigliato e dalla sua seconda moglie, la principessa normanna Emma. A causa dello stato di agitazione che regnava nel paese, all’età di soli dieci anni fu mandato in esilio in Normandia, ove rimase sino al 1041. Richiamato poi in Inghilterra, l’anno seguente ascese al trono. Proprio durante l’esilio il futuro re aveva appreso molte delle qualità che gli tornarono più utili, come ricorda il suo biografo Barlow: “opportunismo e flessibilità, pazienza, cautela, capacità di evitare lo scontro frontale [...] sapienza terrena [...] disponibilità ad accettare qualunque sorte gli fosse riservata”. Regnò per un periodo abbastanza lungo, riuscendo a tenere sotto controllo i molteplici nemici, sia interni che esterni. Il suo successore Aroldo, ventidue anni dopo, si trovò a governare un paese ben più tranquillo, unito e stabile di quanto non lo fosse stato all’incoronazione di Edoardo.
La santità di Edoardo non è data esclusivamente da alcune azioni eroiche, bensì è frutto del suo comportamento complessivo quale sovrano. Resta tuttavia difficile conoscere con certezza molti aspetti del suo governo, del suo carattere e delle sue motivazioni. Con lo sviluppo del suo culto, la fama del suo regno si accrebbe tanto da giudicarlo quasi un’epoca d’oro e per sua la grande popolarità Sant’Edoardo divenne uno dei principali patroni d’Inghilterra. Le numerose “Vite” scritto in seguito sul suo conto misero in evidenza la santità di questo grande sovrano, i miracoli ottenuti per sua intercessione, la castità custodita integra per tutta la vita, la carità verso i poveri, verso la Chiesa ed in particolare verso i monaci.
Occorre però sottolineare come qualcuno nutrisse non pochi interessi dall’incentivare il culto di Sant’Edoardo: in primis i monaci dell’abbazia di Westminster, che ne conservavano la tomba e fecero proliferare i racconti circa la santità e la potenza taumaturgica del re, al fine di incrementare l’afflusso di pellegrini; in seguito la venerazione nei confronti di Edoardo, normanno per parte materna, risultò di aiuto agli invasori normanni per tentare di ottenere un’indiretta legittimazione al loro potere sull’isola. Parecchi leggendari elementi sulla sua esistenza terrena non sono certi, come la scelta fatta con la moglie Edith di condurre una vita di castità ed il matrimonio bianco, forse pure supposizione volte a giustificare il fatto che non lasciò discendenza. Anche la maggior parte dei racconti sui miracoli è assai dubbia: la “Vita” più antica, scritta pochissimi anni dopo la sua morte, narra di alcune guarigioni avvenute con l’acqua in cui il santo re si era lavato le mani. Fu allora invocato contro le malattie della pelle e l’epilessia e secondo la tradizione fu il primo sovrano inglese a contrarre la cosiddetta “malattia del re”, cioè la scrofola. Abolì la tassa dell’heregeld, destinata al mantenimento dell’esercito, per devolvere il ricavato ai poveri, ma forse si trattò solo di un provvedimento temporaneo.
Analizzando invece le qualità di Edoardo come sovrano, ci si può rifare a notizie più certe: difese il paese dagli attacchi stranieri e protesse la propria autorità dai sudditi troppo ambiziosi. Tentò sempre in ogni modo di evitare le guerre, ma fu sempre risoluto nel dispiegare un esercito o una flotta contro la minaccia di invasione. Per rafforzare la propria posizione non mancò di stringere numerose alleanze straniere. In patria la più seria minaccia al suo potere era costituita dal conte Godwin del Wessex: ne sposò allora la figlia, Edith, ma quando nel 1051 Godwin minacciò una rivolta, ad Edoardo non restò che esiliarlo insieme all’intera sua famiglia, facendo rinchiudere anche Edith in un convento. Già l’anno seguente il re permise a Godwin di fare ritorno in patria, evitando così il rischio di una guerra civile e nel regno continuò dunque a regnare la pace.
Indipendentemente dalla fama acquisita in seguito, pare che non fu un grande benefattore della Chiesa, ad eccezione di Westminster. Una saggia amministrazione delle nomine ecclesiastiche costituiva una parte essenziale per affermare l’autorità regio ed un buon governo. Il giudizio di Edoardo in queste questioni si rivelo sempre oculato, salvo il caso di Stigand, arcivescovo di Canterbury che si rivelò certo un abile amministratore, ma poco animato da spirito religioso. Edoardo nominò anche degli stranieri alle sedi episcopali inglesi, non per distruggere la matrice nazionale della Chiesa, quanto più per il desiderio di scegliere degli uomini di qualità. Durante il suo regno furono applicate importanti riforme locali, non vi furono scandali e vennero rafforzati i rapporti con Roma.
La decisione di rifondare l’abbazia di Westminster, monumento che perpetuò indefinitamente il suo ricordo, nacque da un voto che Edoardo aveva fatto quando in gioventù era esule in Normandia: se Dio avesse reintegrato nei suoi diritti la sua famiglia, si sarebbe recato a Roma in pellegrinaggio. Asceso poi al trono, si trovò impossibilitato a lasciare l’Inghilterra e chiese perciò al papa di essere dispensato dal voto. Il pontefice acconsentì, commutando l’obbligo nella fondazione di un monastero dedicato all’apostolo Pietro. Edoardo scelse allora un convento già esistente presso Thorney, ad ovest di Londra, al quale fece ingenti donazioni di terreni e in denaro, dando inizio all’edificazione di una magnifica chiesa romanica, che fu l’embrione dell’odierna abbazia di Westminster. Le sue condizioni di salute, purtroppo, si aggravarono prima di poter partecipare all’inaugurazione del coro della basilica. Morì dopo pochi giorni, il 5 gennaio 1066, e venne sepolto proprio nell’abbazia. Nel 1102 il suo corpo, riesumato e trovato incorrotto, venne traslato in un nuovo sito. In seguito fu soggetto ad alcune traslazioni e le sacre reliquie sopravvissero alla Riforma ed ancora oggi sono oggetto di venerazione. Nel 1161 papa Alessandro III canonizzo Sant’Edoardo III, detto “il Confessore” per distinguerlo dal suo predecessore Edoardo II “il Martire”, dietro interessamento del re Enrico II. Nel 1689 la sua festa fu estesa alla Chiesa universale e fissata in data 13 ottobre, anniversario della prima traslazione. Oggi però il nuovo Martyrologium Romanum ha spostato la commemorazione alla data della morte.
Autore: Fabio Arduino
Szulaki, Ucraina, 28 gennaio 1827 – Jazlowiec, Polonia, 5 gennaio 1911
Martirologio Romano: A Jazlowice in Ucraina, beata Marcellina Darowska: morti il marito e il figlio primogenito, si consacrò a Dio e, sempre attenta alla dignità della famiglia, fondò per l’educazione delle fanciulle la Congregazione delle Suore dell’Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria.
È stata proclamata beata il 6 ottobre 1996 in Piazza S. Pietro a Roma, da papa Giovanni Paolo II suo connazionale.
Marcellina Darowska nacque il 28 gennaio 1827 a Szulaki in Ucraina, quinta degli otto figli di Jan Kotowicz e Maksymilia Jastrzebska, proprietari terrieri benestanti. Crebbe nel tipico ambiente dei signori di campagna; la sua città Szulaki era allora sotto l’occupazione russa che voleva ad ogni costo distruggere il patrimonio culturale polacco, provocando la chiusura dei seminari e conventi della Chiesa Cattolica molto perseguitata.
Marcellina fece la Prima Comunione a 10 anni e a 12 fu mandata in un autorevole convitto femminile ad Odessa; in lei comunque sin da bambina era sbocciato il desiderio di una vita consacrata; dopo aver studiato per tre anni ritornò a casa e prese ad aiutare il padre nella gestione della fattoria.
Non potendo soddisfare il suo desiderio per mancanza di conventi nei dintorni e per una certa opposizione paterna, restò nella fattoria per alcuni anni, promettendo alla fine al padre di formarsi una famiglia.
Accettò a 21 anni di sposare Karol Darowski possidente terriero della Podolia (regione storica dell’Ucraina, a quel tempo divisa fra Austria e Russia), ma il matrimonio si poté celebrare solo un anno dopo, perché Marcellina che aveva dovuto cedere alle insistenze del padre, reagì con una dolorosa paralisi alla gamba e un generale indebolimento dell’organismo, quasi da ridurla in fin di vita.
Dopo settimane di malattia si riprese e il 2 ottobre 1849 sposò Karol Darowski sempre per obbedienza, nonostante ciò, fu una moglie esemplare e dal matrimonio nacquero due figli, Giuseppe e Carolina.
Purtroppo tre anni dopo il marito morì di tifo e qualche mese più tardi morì anche il figlioletto Giuseppe; vedova a 25 anni promise alla Madonna facendo un voto, “di non appartenere più ad alcuna creatura”, quindi per curare la salute prese a viaggiare all’estero prima a Berlino, poi a Parigi e l’11 aprile 1853 fu a Roma.
Qui nel 1854 fece conoscenza della Serva di Dio Giuseppa Karska (1823-1860) stringendo con lei una solida amicizia e ponendosi sotto la guida spirituale del padre Girolamo Kaysiewicz, resurrezionista, (Congregazione fondata a Parigi nel 1836 da tre emigrati polacchi, Semenenko P., Janski B. e lo stesso Kaysiewicz G.), i due stavano per fondare un Istituto religioso, il cui scopo era preparare la gioventù femminile alla vita sociale, specie quelle delle classi elevate.
Il 12 maggio 1854 Marcellina Darowska pronunciò privatamente i voti di castità ed obbedienza davanti al padre Kaysiewicz. Passò del tempo, in cui Marcellina ritornò in Polonia per sistemare l’avvenire a sua figlia Carolina e due mesi dopo la morte prematura dell’amica Karska, il 10 dicembre 1860 ritornò a Roma, allora la Congregazione delle “Suore dell’Immacolata Concezione della B. V. M. “frutto dell’opera comune di Giuseppa Karska e Marcellina Darowska, contava appena quattro suore.
Suor Marcellina fece i voti il 3 gennaio 1861 a Roma, assumendo il ruolo di Superiora della nuova Congregazione; i suoi sforzi maggiori tesero a trasferire la Congregazione in Polonia; nel novembre 1861 ritornò nella sua patria e dopo avere assistito alla morte avvenuta in pochi mesi dei suoi genitori, scelse un terreno per la fondazione del primo convento a Jazlowiec nella diocesi di Leopoli, nel 1863 le ultime suore lasciarono Roma.
Condusse con prudenza ed energia per oltre un cinquantennio la sua Congregazione, diventandone l’anima, nel 1863 ottenne il decreto di lode, nel 1874 il decreto di approvazione, nel 1889 furono approvate le Costituzioni da lei stessa compilate.
Ebbe molte difficoltà, specie dopo la morte nel 1873 di padre Kajsiewicz sua guida spirituale; amò in particolare la croce, diceva: “Questa è il bacio dell’amore di Dio”.
Negli anni sorsero altre Case e ognuna comprendeva una scuola media con l’internato e una scuola elementare; inoltre furono aperti piccoli istituti gratuiti per la gente povera, come asili, corsi professionali e di istruzione complementare.
Nelle sue scuole furono formate generazioni di donne sagge e coraggiose, affinché conoscessero Dio e lo amassero seguendo i suoi comandamenti, amando il prossimo ed adempiendo ai propri doveri.
Marcellina Darowska dopo aver sofferto per disturbi cardiocircolatori e di fortissimi mal di testa, che le resero pesanti le sue normali attività, morì il 5 gennaio 1911 a Jazlowiec lasciando sei Case e 350 suore, che oggi lavorano anche in Bielorussia e Ucraina.
Autore: Antonio Borrelli
Oggi una coppia di sposi "atipica" (avevano scelto di vivere in verginità), martiri entrambi.
Giuliano e sua moglie Basilissa vengono ricordati assieme ad altri compagni martiri ad Antinoe. Secondo la «Passio» greca che ne racconta la vita, Basilissa in giovane età viene persuasa dalla sposo a vivere in castità il matrimonio, per il quale lo stesso Giuliano aveva ricevuto pressioni da parte dei genitori contro il suo desiderio segreto di conservare la verginità. Seguendo l'esempio del marito, alla morte dei genitori Basilissa fonda un monastero. È qui, secondo l'antica agiografia, che si inserisce, nella vita dei due santi sposi, la persecuzione di Diocleziano e Massimiano, fra il secondo e il terzo secolo. Basilissa e le sue compagne muoiono insieme piuttosto misteriosamente, mentre Giuliano è denunciato al governatore Marciano e imprigionato. Morirà anche lui martire assieme a un gruppo di anonimi ai quali va aggiunto di certo il neofita Anastasio, convertito al cristianesimo dallo stesso Giuliano in prigione. Il santo sposo, sembra assieme a venti soldati e sette fratelli, dopo una lunga serie di tormenti, subirà la decapitazione. (Avvenire)
Martirologio Romano: Ad Antinoe nella Tebaide, in Egitto, santi Giuliano e Basilissa, martiri.
La passio greca di questi santi non è stata ancora pubblicata (ne è stato però annunciato uno studio di F. Halkin); per contro hanno visto la luce numerose edizioni della traduzione, o meglio dell'adattamento latino di questa (in recensioni diverse), che permettono di conoscere la loro storia o almeno ciò che gli antichi agiografi hanno scritto a proposito di questi martiri di Antinoe (la lettura Antiochia è certamente da respingere e la confusione, come si è detto, viene probabilmente da una cattiva interpretazione del nome abbreviato Ant.).
Occorre distinguere due parti in questa passio: dapprima la giovinezza di Giuliano e il suo matrimonio. Egli riceve un'educazione raffinata e, a dire dell'agiografo, nulla gli sfugge del sapere umano. Verso i diciott'anni i suoi genitori vogliono dargli moglie contro il suo desiderio segreto di conservare la verginità. Egli accetta a condizione, però, di mantenere il suo proposito e ne persuade Basilissa, sua sposa, che consente a vivere con il marito senza consumare il matrimonio. Questo episodio ritorna nella Vita di altre coppie di santi: B. de Gaiffier, ad esempio, ha dimostrato che la Vita di Alessio dipende abbastanza letteralmente da quella di Giuliano e Basilissa. Si potrà anche avvicinare a questo genere di testi, che hanno per scopo di celebrare la verginità secondo una tendenza encratista - e talvolta in modo poco ortodosso - la passio di Crisanto e Daria.
Dopo la morte dei loro genitori, Giuliano e Basilissa fondano, lui un monastero di uomini e lei uno di donne. Occorre notare che questa attività tutta spirituale dei due sposi sarà, ad un certo punto, considerata sotto un aspetto caritativo e creerà quella confusione talvolta riscontrata tra la storia dei nostri due santi e quella di s. Giuliano l'Ospedaliere.
A questo punto si scatena la persecuzione di Diocleziano e Massimiano ed entriamo nella seconda parte del racconto agiografico. Basilissa e le sue compagne muoiono insieme piuttosto misteriosamente, mentre Giuliano è denunciato al governatore Marciano e imprigionato. Riesce però a convertire Celso, figlio di Marciano, ed in seguito Marcianilla, madre di Celso, che sarà battezzata dal prete Antonino. Tutto questo gruppo al quale bisogna aggiungere il neofita Anastasio ed un certo numero di compagni anonimi (in particolare venti soldati e sette fratelli), dopo una lunga serie di tormenti, subirà la decapitazione.
Giuliano e Basilissa, come del resto i loro compagni martiri, sono sconosciuti ai calendari copti ed il Sinassario Alessandrino di Michele, vescovo di Atrib e Malig, li ignora completamente. Per contro il Martirologio Geronimiano li commemora al 6 gennaio e nei sinassari bizantini si trova la loro memoria sia l'8 gennaio sia il 21 giugno. Occorre notare che nella notizia di quest'ultimo giorno, il nome di Basilissa è portato dalla madre di Celso.
Lo stesso giorno i sinassari menzionano anche Giuliano di Anazarbo e fanno soffrire anche lui sotto il governatore Marciano. Per quanto riguarda il Martirologio Romano (che fa sua la lettura sbagliata: Antiochia), esso segue Adone che aveva trasferito al 9 gennaio la memoria del nostro gruppo commemorato, invece, in Floro, come nel Martirologio Geronimiano, al 6. Notiamo infine che nel Calendario marmoreo di Napoli (sec. IX) Giuliano e Basilissa sono iscritti da soli al 7 dello stesso mese.
A Costantinopoli, il 5 luglio si commemorava la dedicazione della chiesa di Giuliano e si celebravano in questo santuario le feste dell'8 gennaio e del 21 giugno oltre che la synaxis dei santi Angeli l'8 novembre.
(ndr: Il Nuovo Martyrologium Romanum li pone alla data al 6 gennaio, correggendo l’errore “Antiochia” che diventa “Antinoe in Thebaide”) .
Autore: Joseph-Marie Sauget
Nam Dien, Vietnam, 1825 circa - An Bài, Vietnam, 7 gennaio 1862
Giuseppe Tuan, laico del Vicariato Apostolico del Tonchino Centrale, rifiutò di calpestare la croce, anzi la adorò. Per tale motivo fu decapitato sotto l’imperatore Tu Duc. Papa Giovanni Paolo II l’ha canonizzato il 19 giugno 1988.
Martirologio Romano: Nel villaggio di An Bái nel Tonchino, ora Viet Nam, san Giuseppe Tuân, martire: padre di famiglia e contadino, fu decapitato sotto l’imperatore Tu Ðuc per aver pregato in ginocchio davanti alla croce, che aveva invece avuto l’ordine di calpestare.
Quinto Vicentino, 27 settembre 1866 – Marola (Vicenza), 8 gennaio 1932
Fu madre di nove figli, di cui tre divennero sacerdoti. Aderì al Terz’Ordine Francescano, vivendone lo spirito di povertà e di letizia. Donna di grande fede e carità, aiutò i bisognosi, assistette i malati e irradiò la luce del vangelo in famiglia e nella parrocchia di Marola (Vicenza), dove visse e morì.
Il santo nella Chiesa Cattolica, è colui che si lascia guidare dallo Spirito Santo e corrisponde alla sua chiamata. Lo Spirito ne plasma l'anima e quando vuole dare un messaggio alla sua Chiesa, lo presenta come esempio agli altri.
Questo è il senso della beatificazione e canonizzazione nella Chiesa Cattolica. E la santità si manifesta in ogni età, condizione sociale e luogo; così si mostrò anche nella vita e nella casa della madre di famiglia Eurosia Fabris Barban, la quale nacque il 27 settembre 1866 a Quinto Vicentino, grosso Comune ad 8 km da Vicenza.
I suoi genitori Luigi e Maria Fabris si trasferirono nel 1870 a Marola (Vicenza) e qui Rosina, come era chiamata in famiglia, frequentò solo le prime due classi elementari, perché poi dovette aiutare i genitori nei lavori dei campi; in quel tempo in cui l'analfabetismo femminile superava il 75%, fu una fortuna per lei che poté imparare a leggere, scrivere e fare i conti e la lettura fu la sua passione.
Crebbe nel clima cristiano della famiglia, ogni sera ci si riuniva per recitare il rosario; si prefisse sempre la ricerca della volontà di Dio per il suo futuro.
Le sue devozioni furono il Crocifisso, il Presepio, lo Spirito Santo, il Tabernacolo, la Vergine Maria, le anime del Purgatorio; condusse la sua adolescenza e giovinezza nella preghiera, nel lavoro, nella semplicità e nell'innocenza, completò la sua formazione con la lettura di libri utili studiando il catechismo e la Storia Sacra.
Insegnò il catechismo nella parrocchia di Marola alle fanciulle e in seguito insegnò nella sua casa l'arte del taglio e cucito alle giovani.
Nel 1885 quando Rosina aveva 19 anni, accadde una disgrazia nella casa dei suoi vicini, una giovane sposa moriva di un male incurabile, lasciando vedovo Carlo Barban di 23 anni, con due figliolette Chiara Angela e Italia di 20 e 4 mesi; assieme a loro convivevano il nonno Angelo anziano e ammalato e il fratello di Carlo ancora minorenne, Benedetto.
Una situazione tragica che colpì profondamente la giovane Rosina e quando le fu chiesto di accudire la casa come domestica, accettò ben volentieri, concentrando soprattutto le sue cure alle piccole bisognose di affetto.
La sua opera continuò per sei mesi, poi dietro richiesta del giovane vedovo, seguendo il consiglio dei parenti e del parroco, accettò di sposarlo soprattutto per poter accudire come una mamma le piccole orfane; vide in questo matrimonio la volontà di Dio, tante volte chiesto di manifestarsi.
Il matrimonio venne celebrato il 5 maggio 1886 nella loro chiesa parrocchiale di Marola, frazione di Torri di Quartesolo (VI); il suo matrimonio fu considerato da tutti uno squisito gesto di carità.
Entrando nella famiglia Barban, Eurosia Fabris era cosciente che non andava a fare la 'signora' come si dice; il marito Carlo, è vero possedeva dei buoni e produttivi campi, ma il padre Angelo si era lasciato truffare lasciando il figlio in una pesante situazione debitoria.
Rosina aveva capito il valore della povertà; anche Gesù era stato povero, eppure era il padrone del mondo. Amava che la casa fosse pulita e in ordine, si percepiva che si trattava di una povertà dignitosa; erano tempi di una forte crisi economica e sociale, ma Eurosia confidò sempre nell'aiuto di Dio.
Intanto la sua famiglia aumentava, ebbe sette figli propri, così come le aveva preannunciato la Madonna apparendole nel Santuario di Monte Berico; a loro si aggiunsero nel 1917 altri tre orfani di una nipote, Sabina, morta mentre il marito era al fronte nella Prima Guerra Mondiale; nessuno dei parenti voleva occuparsene, per cui Eurosia e il marito Carlo, non ebbero tentennamenti e l'accettarono in casa.
Al marito preoccupato di come si poteva andare avanti, lei rispondeva: “Coraggio Carlo, pensiamo che il Signore ci vede e ci ama; penserà lui a toglierci dalle necessità; ci soccorrerà di certo, almeno per i nostri bambini, egli che ama tanto l'innocenza”.
Rosa era molto generosa, faceva da balia spesso a bambini le cui madri non potevano allattarli, a volte si trovò con tre bambini contemporaneamente, distribuiva ai più poveri, latte, uova, minestra, che portava personalmente di nascosto, si può dire che se lo toglieva di bocca per donarlo.
In effetti Eurosia visse nei primi decenni del Novecento, che furono caratterizzati da una forte crisi economica, da tanta povertà, con l'emigrazione e con le conseguenze della guerra del 1915-18; il denaro era scarso e le famiglie bisognose numerose, non esisteva ancora la Previdenza Sociale e mamma Rosa faceva quello che poteva, non con i soldi che mancavano, ma con i prodotti dell'orto e del pollaio.
Persuase spesso il marito ad alloggiare i pastori o i pellegrini di passaggio e quasi ogni notte, nel fienile o nella stalla, c'erano persone che dormivano e alle quali Rosina forniva anche la cena; una volta una donna partorì anche un bambino nella stalla e lei si attivò per aiutarla, i coniugi Barban accolsero quella famiglia per tre giorni nella loro casa.
Della sua numerosa famiglia, tra figli suoi e adottati, due morirono in tenera età, altri due scelsero il sacerdozio don Giuseppe e don Secondo Barban, un altro Angelo Matteo, fu francescano con il nome di padre Bernardino Barban; Chiara Angela, la prima adottata, entrò fra le Suore della Misericorda di Verona; un altro morì seminarista e un altro fu francescano con il nome di frate Giorgio; gli altri sei dei complessivi tredici figli, scelsero la via del matrimonio; a tutti mamma Rosa insegnò a cercare senza sosta la volontà di Dio, se volevano salvarsi l'anima.
Durante gli studi dei due figli sacerdoti, dovette convincere Carlo il marito, di lasciarli andare, specie il primo destinato a dare una mano in famiglia lavorando i campi.
Non avendo denaro per la retta, i due giovani frequentarono il ginnasio da esterni, quindi tutte le mattine mamma Rosa si svegliava presto, per preparare la colazione ai due figli, che poi si recavano a piedi da Marola al Seminario di Vicenza; poi usciva per assistere alla Messa, al ritorno preparava la colazione per tutti gli altri, nel frattempo svegliati; oltre le faccende domestiche, dedicava il resto del tempo libero al lavoro di sarta fino a tarda sera, per contribuire al vacillante bilancio familiare.
In questa missione di madre cristiana, arricchita dalla spiritualità francescana del Terz'Ordine di cui Eurosia, sin dal 1916 era iscritta e frequentava assiduamente, si sacrificò e consumò, senza divertimenti di sorta, con un lento e continuo logorio, giorno per giorno, come una candela sull'altare della carità.
Morì l'8 gennaio 1932 circondata dall'affetto dei suoi cari; il 3 febbraio 1972 iniziò presso la Curia vescovile di Padova, il processo informativo per la sua beatificazione, conclusasi il 23 aprile 1977.
Il 22 giugno 2004 la competente Congregazione Vaticana, alla presenza del papa Giovanni Paolo II, ha riconosciuto la validità di un miracolo ottenuto grazie alla sua intercessione; ciò ha aperto la porta della beatificazione che avverrà nei prossimi mesi.
E' stata beatificata il 6 novembre 2005 a Vicenza sotto il pontificato di Benedetto XVI.
La diocesi di Vicenza la ricorda il 9 gennaio.
Autore: Antonio Borrelli
Una santità “feriale”, una carità spicciola, la delicatezza dei piccoli gesti e della bontà più squisita hanno portato un’altra mamma alla gloria degli altari. La beatificazione, programmata in aprile (e poi rinviata per la morte del Papa), è stata la prima in Italia a svolgersi nella diocesi di origine e senza la presenza del papa, secondo le nuove norme introdotte da Benedetto XVI. Nella cattedrale di Vicenza, dunque, in una cornice di millecinquecento rose bianche, lo scorso 6 novembre il Cardinale Prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi ha proclamato beata Eurosia Fabris Barban, una mamma di numerosa famiglia, tra figli propri ed adottati, vissuta a cavallo tra Ottocento e Novecento. Nasce il 27 settembre 1866 a Quinto Vicentino e quattro anni dopo, insieme alla famiglia, si trasferisce a Marola, frazione di Torri di Quartesolo, dove si snoderà tutta la sua vita di giovane impegnata, moglie e mamma e dove oggi riposano le sue reliquie. Rosina, come tutti la chiamano in casa, cresce in un clima familiare fortemente cristiano ed impegnato e, cosa rara a quei tempi, riesce ad imparare a leggere, scrivere e far di conto, pur avendo frequentato solo le prime due classi elementari. Catechista in parrocchia, sarta e maestra di cucito in casa, a 19 anni la sua vita è sconvolta dalla morte di una giovane mamma, sua vicina di casa, che lascia orfane due bimbe di pochi mesi. Rosina entra in quella casa come domestica e, diremmo oggi, soprattutto baby sitter, dato che le sue attenzioni e il suo amore si riversano subito sulle due orfanelle. Sei mesi dopo il vedovo, Carlo Barban, un giovane di 23 anni, la chiede in sposa e lei accetta, dopo essersi consigliata in famiglia e con il confessore, per amore di quelle bimbe. Se questa motivazione potrebbe anche non essere la base per un vero “matrimonio d’amore”, il gesto di Rosina viene interpretato da tutti come uno squisito gesto di carità, perché lei è ben cosciente della situazione economica disastrata della famiglia del marito, dove c’è anche un suocero anziano e malato da accudire e un cognato ancora minorenne cui badare. Da quel momento la vita di Rosina è ogni giorno intessuta da piccoli e grandi gesti di carità. Mette al mondo sette figli, ma altrettanti ne accudisce, tra quelli nati dal primo matrimonio del marito e altri orfani che accoglie in casa. Per trovare il pane necessario a tutte quelle bocche fa la sarta dal mattino alla sera, eppure nessuno bussa alla sua porta senza ricevere qualcosa, magari anche solo uova, latte e minestra che si toglie di bocca. Allatta i bimbi delle altre senza accettare compenso, si presta per l’assistenza dei malati, ospita pellegrini e poveri di passaggio, educa la famiglia ad una soda vita cristiana ed è contenta delle tante vocazioni sacerdotali e religiose che sbocciano in casa sua. Carlo Barban muore nel 1930, Rosina lo segue neppure due anni dopo, l’8 gennaio 1932. Ora la Chiesa la proclama beata per dare a tutte le mamme un modello ed una protettrice in più, perché si è santificatasi semplicemente tra orto, stalla e cucina. Davvero una santità alla portata di tutti.
Autore: Gianpiero Pettiti
+ Seoul, Corea del Sud, 9 gennaio 1840
La laica coreana Teresa Kin, vedova nata a Myeoncheon nel 1797, e Agata Yi, giovane ragazza nata a Seoul nel 1824, vennero incarcerate, torturate ed infine sgozzate in odio alla loro fede cristiana. Sono state canonizzate da Papa Giovanni Paolo II il 6 maggio 1984.
Martirologio Romano: A Seul in Corea, sante martiri Teresa Kim, vedova e Agata Yi, vergine, i cui genitori furono essi pure coronati dal martirio: in carcere per Cristo, dopo molte percosse, furono sgozzate.
Cesarea di Cappadocia, circa 335 - 395
È uno dei più importanti Padri della Chiesa d'Oriente. A lui si deve il primo trattato sulla perfezione cristiana, il «De virginitate». Nato intorno al 335, a differenza del fratello Basilio, futuro vescovo di Cesarea, inizialmente non scelse la vita monastica ma gli studi di filosofia e retorica. Fu solo dopo aver insegnato per anni che raggiune Basilio ad Annesi, sulle rive dell'Iris, dove si era ritirato insieme a Gregorio di Nazianzo. E quando Basilio fu eletto alla sede arcivescovile di Cesarea, volle i suoi due compagni come vescovi a Nissa e a Sasima. Nella sua sede episcopale Gregorio dovette affrontare non poche difficoltà: accuse mossegli dagli ariani lo portarono nel 376 all'esilio, ma quando si scoprì che erano false venne reintegrato nella sede. Nel 381 i padri che con lui parteciparono al Concilio Costantinopolitano I lo definirono la «colonna dell'ortodossia». Morì intorno al 395. (Avvenire)
Etimologia: Gregorio = colui che risveglia, dal greco
Emblema: Bastone pastorale
Martirologio Romano: A Nissa in Cappadocia, nell’odierna Turchia, san Gregorio, vescovo, fratello di san Basilio Magno: illustre per vita e per dottrina, a motivo della retta fede da lui professata fu scacciato dalla sua città dall’imperatore ariano Valente.
S. Gregorio di Nissa è uno dei grandi "Padri Cappadoci" a nessuno di loro inferiore come filosofo, teologo e mistico. Fratello di S. Basilio il Grande e di S. Macrina, di cui scrisse la vita, nacque a Cesarea verso il 335. Si applicò allo studio delle lettere in patria e in seno alla famiglia molto religiosa e ricca. Non pare che abbia avuto occasione di frequentare le grandi scuole del tempo, tanto più che suo padre era retore e avvocato.
Gregorio nella sua chiesa adempiva già l'ufficio di lettore quando, sedotto dalle attrattive del mondo, innamorato dell'arte di Libanio, sofista e rètore pagano, si fece professore di belle lettere e sposò la giovane Teosebia. Tuttavia, le rimostranze di suo fratello e di S. Gregorio di Nazianzo gli fecero ben presto comprendere la vanità del mondo. Allora abbandonò la cattedra, verso il 360 raggiunse i suoi amici nel cenobio fondato da S. Basilio sulle rive dell'Iris, nel Ponto, per darsi all'ascesi e allo studio della Scrittura e dei grandi teologi, in modo speciale Origene. Possiamo farci un'idea del suo stato d'animo in quel tempo leggendo il De Virginitate che scrisse per ordine di Basilio, suo maestro. Da quanto dice era pienamente felice di potersi dedicare alla vita contemplativa, lontano dal tumulto degli affari.
In quella solitudine Gregorio rimase per oltre dieci anni, fino a tanto cioè che suo fratello, eletto metropolita di Cesarea di Cappadocia, nel 371 lo richiamò per consacrarlo, nonostante la sua resistenza, vescovo di Nissa. S. Basilio non poté mai vantarsi delle attitudini amministrative dell'eletto. In diverse lettere egli si lamenta della sua ingenuità. A chi, nel 375, gli propose di inviarlo in missione a Roma, onde superare le difficoltà sorte con papa Damaso, che non si rendeva ben conto della situazione in Oriente, rispose, conscio dell'inesperienza assoluta di lui negli affari ecclesiastici: "Gregorio sarebbe certamente venerato e apprezzato da un uomo benevolo, ma con un uomo altero come Damaso, compreso della sua importanza, posto in alto e appunto per questo incapace di intendere coloro che, dal basso, gli dicono la verità, la visita di uno così estraneo all'adulazione come Gregorio, non servirebbe a nulla".
Ciò nonostante S. Basilio aveva un'assoluta fiducia in lui perché lo sapeva fedele sostenitore del Concilio di Nicea. Fu difatti il suo costante attaccamento alla dottrina di S. Atanasio che gli attirò l'odio e la persecuzione degli ariani. Nella primavera del 376, un sinodo di vescovi cortigiani, convocato da Demostene, governatore del Ponto, e tenuto a Nissa stessa, depose Gregorio durante la sua assenza, con il falso pretesto di aver dilapidato i beni della sua chiesa. Questi avrebbe voluto ritirarsi ma S. Gregorio di Nazianzo lo esortò a tenere duro. La morte dell'imperatore Valente, avvenuta il 9-8-378 nella lotta contro i Goti. Gli permise difatti di rientrare trionfalmente nella sua sede.
Nel 379, nove mesi dopo la morte di suo fratello, S. Gregorio prese parte al concilio di Antiochia, riunito per estinguere lo scisma Meleziano ivi sorto e in cui si vide affidare dai padri conciliari una missione di grande fiducia presso i vescovi discordi del Ponto e dell'Armenia. Mentre assolveva il suo compito, nel 380 fu scelto come arcivescovo di Sebaste. Egli protestò per quella sua elezione, ma per qualche mese s'incaricò provvisoriamente dell'amministrazione religiosa della diocesi.
Il vescovo di Nissa, se era poco abile negli affari, s'imponeva con la sua eloquenza e la vastità della scienza filosofìca e teologica. Nel 2° concilio ecumenico radunato da Teodosio I nel 381 a Costantinopoli fu salutato "colonna dell'ortodossia". In esecuzione del 3° canone del concilio, l'imperatore stabilì che sarebbero stati esclusi, come eretici notori, dalle chiese della provincia del Ponto, coloro che non erano in comunione con i vescovi Elladio di Cesarea, Otreio di Mitilene nella Piccola Armenia, e Gregorio di Nissa. E’ probabile che il santo sia stato incaricato di redigere la professione di fede che concluse i lavori del concilio. Sembra pure che abbia ricevuto l'incombenza di stabilire l'ordine nelle chiese della Palestina e dell'Arabia. San Gregorio ricomparirà ancora più di una volta, a Costantinopoli per i discorsi d'occasione e per le grandi orazioni funebri in morte della principessa Pulcheria e dell'imperatrice Flacilla. Nel 394 prese parte al concilio celebrato sotto la presidenza del patriarca Nettario. Nella suddetta città, dopo d'allora, il suo nome non compare più nei documenti del tempo. Se ne deduce che sia morto poco dopo.
San Gregorio fu oratore stimato, ma meno vivo del Nazianzeno, fu uomo di azione, ma inferiore a Basilio. Fu invece il più speculativo dei Cappadoci e il più profondo dei padri greci del secolo IV. Contro Eunomio, vescovo ariano di Cizico, difese energicamente dalle accuse suo fratello, e contro Apollinare di Loadicea rivendicò a Cristo un corpo umano e un'anima razionale. Nella controversia trinitaria rappresentò l'ortodossia cattolica e seguì la terminologia già fissata dagli altri cappadoci. Nella spiegazione teologica del dogma qualche volta fu molto audace, altre volte invece assai impreciso. La vita spirituale non è considerata dal Nisseno come contemplazione di Dio presente nell'anima, bensì come un avvicinarsi dell'anima a Dio e come l'unione con Lui nell'estasi dell'amore. La via della perfezione comincia quindi con l'illuminazione della fede, che coincide con la purificazione dell'anima; attraversa la seconda fase, che è l'oscurarsi delle realtà sensibili, mentre l'anima scopre in sé l'immagine della Santissima Trinità; nella fase finale sfocia nella conoscenza di Dio nella tenebra, che spinge l'anima alla ricerca instancabile dello Sposo divino, perché trovare Iddio non è riposarci in Lui, ma cercarlo senza sosta.
L'escatologia di Gregorio è molto discussa perché da una parte afferma l'eternità delle pene dell'inferno, e dall'altra - basandosi sull'efficacia dell'immenso amore del Verbo incarnato e sul trionfo finale del regno di Dio - insegna la restaurazione universale, teoria tanto cara ad Origine, ma riprovata dalla Chiesa.
Autore: Guido Pettinati
10 gennaio: SANTA TEOSEBIA. La chiesa ortodossa la ricorda in questo giorno, insieme a Gregorio di Nissa, del quale fu "compagna di ministero". Diversi studiosi hanno pensato che sia stata la moglie del Nisseno, divenuta poi "diaconessa" e sua collaboratrice nel servizio pastorale
tratta dal libro “Prose Italiane” di Lorenzo Fusconi (Tomo IV) 1790
tratto da un antico dizionario del 1773 (tomo 3°)
Venezia, 928 – Cuxa, Spagna, 10 gennaio 987
Nato nel 928 in Friuli da nobile famiglia veneziana, Pietro Urseolo (Orseolo) nel 976 divenne Doge e fece ricostruire San Marco e il Palazzo ducale distrutti dai cospiratori che avevano fatto cadere il predecessore, Pietro Candiano. Fu munifico nella costruzione di chiese. Sotto l'influenza dell'abate Guarino di Cuxa (Cussano), monastero benedettino ai piedi dei Pirenei, intraprese la vita monastica e per un certo periodo fu seguito da san Romualdo, fondatore dei Camaldolesi. Profondamente umile e austero, viveva in una cella così angusta da non potervi stare né ritto né steso. Morì a Cuxa il 10 gennaio del 987. (Avvenire)
Martirologio Romano: Nel monastero di Cuxa tra i Pirenei, san Pietro Orseolo, che, da doge di Venezia fattosi monaco, rifulse per pietà e austerità e passò la vita in un eremo vicino al monastero.
Pietro Orseolo nacque a Venezia nel 928, da nobile famiglia veneziana. Fu comandante della flotta veneta contro i corsari saraceni, che ormai da secoli costituivano una vera e propria piaga per il mar Mediterraneo. Non accontentandosi di attaccare le navi commerciali, spesso costoro compivano anche spaventose scorrerie sulle coste, saccheggiando e massacrando, portandosi via il bottino e soprattutto degli schiavi. Partendo dai loro covi africani, colpivano le loro vittime e fuggivano prima di aver dato loro tempo di poter organizzare la difesa. Talvolta si spingevano anche nell’entroterra continentale, attaccando castelli, monasteri e villaggi, che proprio non si aspettavano di veder spuntare i saraceni.
Inutile ribadire come il commercio marittimo fosse fortemente penalizzato da tutto ciò, a maggior danno delle Repubbliche Marinare, che furono così costrette ad organizzare flotte militari permanenti al solo scopo di contrastare i saraceni.
Nel 976 a Venezia una congiura di palazzo sfociò in una rivolta in cui rimase ucciso il doge Pietro Candiano. Stava dunque per iniziare una nuova aspra lotta tra le fazioni della Serenissima, quando saggiamente prevalse l’opzione di eleggere alla massima carica cittadina un personaggio neutrale. La scelta non poté che cadere su Pietro Orseolo, uomo di profonda fede cristiana, da tutti stimato per la sua capacità e il rigore morale.
Il novello doge non deluse le aspettative ed in breve tempo riuscì nell’intento di riappacificare la città, convogliando le risorse del suo governo in numerose opere benefiche e di pubblica utilità. Fece ricostruire la patriarcale basilica di San Marco ed il Palazzo Ducale, distrutti dai cospiratori che avevano ucciso il suo predecessore. Fu munifico anche nella costruzione di nuove chiese e finanziò perfino di tasca propria l’erezione di un ospizio.
Furono questi due anni “serenissimi”, nei quali Venezia poté così ben meritare il suo celebre appellativo, sotto la guida del santo doge. Due soli anni, perché nel frattempo Pietro I Orseolo maturò una scelta di vita diversa: al regno terreno preferì quello dello spirito. D’accordo con moglie e figli e sotto l’influenza dell’abate Guarino intraprese la vita religiosa nel monastero benedettino di Cuxa, ai piedi dei Pirenei. Seguendo l’esempio ed il magistero di San Romualdo, fondatore dei Camaldolesi, si rinchiuse in una cella così angusta da non potervi stare né ritto né steso. Profondamente umile ed austero, fu dotato da Dio di spirito profetico. Terminò dunque santamente la sua vita in preghiera e penitenza pressò Cuxa il 10 gennaio del 987.
Il Martyrologium Romanum lo ricorda nell’anniversario della morte, mentre il Menologio Camaldolese pone una sua festa anche al 19 gennaio.
Autore: Fabio Arduino
Che la santità sia contagiosa lo sapevamo! Ma in famiglia lo è ancora di più! San David è figlio di Santa Margherita e fratello di Santa Matilde...
11 gennaio e 24 maggio 1085 - 24 maggio 1183
David nacque nel 1085, figlio minore dei sovrani Malcom III Canmore e Santa Margherita di Scozia. Restò orfano di entrambi all’età di soli otto anni, ma seppe poi comunque dimostrarsi all’altezza dei genitori. Fu allora ospitato presso la corte di sua sorella Santa Matilde, andata in sposa al re Enrico I d’Inghilterra, ove poté ricevere un’adeguata formazione. Quando nel 1107 ascese al trono di Scozia il fratello primogenito Alessandro, Davide assunse il titolo di principe di Cumbria e sposò un’omonima di sua sorella, figlia del patriota anglosassone Waldef, conte di Northampton e Huntingdon.
David I divenne re di Scozia nel 1124 e, nonostante non fosse ben fissato il confine tra i due stati, fu considerato un vicino abbastanza amichevole dagli inglesi. Durante il regno di Stefano d’Inghilterra imperversò però la guerra civile e David non poté esentarsi dall’entrare in campo. Conquistò dunque nel 1135 parecchi castelli di frontiera e negli anni successivi rivendicò la contea di Northumbria ed invase l’Inghilterra settentrionale. Nel 1138 fu sconfitto a Northallerton nella cosiddetta “battaglia dello stendardo”, riuscendo però a scambiare un definitivo armistizio in cambio della Northumbria e della Cumbria. Poté poi così tornare a dedicarsi al bene del suo popolo.
Per quanto riguarda dunque il governo del suo regno, numerose furono le sue iniziative degne di nota. Organizzò un sistema feudale di proprietà terriera, introducendo anche coloni anglo-normanni e nuovi sistemi giudiziari. Incentivò lo sviluppo delle città di Edimburgo, Berwick e Perth facendovi rifiorire il commercio. Riorganizzò la Chiesa scozzese stringendo maggiori contatti con Roma, istituendo cinque nuove diocesi, fondando numerosi monasteri e conventi di vari ordini. Incrementò inoltre le donazioni nei confronti dei benedettini di Dunfermline, il convento che sua madre aveva fondato e che divenne luogo di sepoltura e centro del culto di suo figlio David I.
Il celebre Sant’Aelredo di Rievaulx, che per un certo periodo fu precettore della sua famiglia, redasse un panegirico in cui evidenziò la riluttanza di David ad accettare il trono, la giustizia che lo contraddistingueva come amministratore e la sua apertura verso il prossimo.
La purezza del sovrano fu sempre esemplare, era solito recitare l’ufficio delle letture, ricevere con frequenza l’assoluzione dai peccati e l’Eucaristia e fare l’elemosina in prima persona: tutte caratteristiche ereditate da sua madre Santa Margherita. L’unico rimprovero rivolgibile al re David I è l’aver arruolato delle truppe barbare durante l’invasione inglese del 1138, che lasciarono un drammatico ricordo per la loro atrocità.
Ormai ammalato, ancora sul letto di morte era solito pregare con i salmi ed ammonire così i presenti: “Permettetemi di pensare alle cose di Dio, cosicché la mia anima venga rafforzata. Quando mi presenterò davanti al trono di Dio, nessuno di voi risponderà per me, nessuno di voi potrà proteggermi, né liberarmi dalla sua mano”. Morì cristianamente il 24 maggio 1183. Il suo corpo fu sepolto nel monastero di Dunfermline e assai presto fu concessa la sua traslazione, evento a quei tempi pressoché equivalente ad un’odierna canonizzazione. Il suo culto perdurò costantemente sino alla Riforma Protestante e l’arcivescovo Laud inserì la sua festa nel libro delle preghiere scozzese. L’influenza che il re scozzese San David I esercitò nel suo paese in campo sia politico che religioso fu profonda e perdurò a lungo, tanto da renderlo uno dei più grandi santi sovrani del Medio Evo.
Autore: Fabio Arduino
11 gennaio e 4 maggio Londra, 1548 - † 11 gennaio 1584
Martirologio Romano: A Londra in Inghilterra, beato Guglielmo Carter, martire: uomo sposato, per aver dato alle stampe un trattato sullo scisma, fu impiccato a Tyburn e crudelmente fatto a pezzi sotto la regina Elisabetta I.
La storia delle persecuzioni anticattoliche in Inghilterra, Scozia, Galles, parte dal 1535 e arriva al 1681; il primo a scatenarla fu com’è noto il re Enrico VIII, che provocò lo Scisma d’Inghilterra con il distacco della Chiesa Anglicana da Roma.
Artefici più o meno cruenti furono oltre Enrico VIII, i suoi successori Edoardo VI (1547-1553), la terribile Elisabetta I, la “regina vergine” († 1603), Giacomo I Stuart, Carlo I, Oliviero Cromwell, Carlo II Stuart.
Morirono in 150 anni di persecuzione, migliaia di cattolici inglesi appartenenti ad ogni ramo sociale, testimoniando il loro attaccamento alla fede cattolica e al papa e rifiutando i giuramenti di fedeltà al re, nuovo capo della religione di Stato.
Primi a morire come gloriosi martiri, il 4 maggio e il 15 giugno 1535, furono 19 monaci Certosini, impiccati nel tristemente famoso Tyburn di Londra, l’ultima vittima fu l’arcivescovo di Armagh e primate d’Irlanda Oliviero Plunkett, giustiziato a Londra l’11 luglio 1681.
L’odio dei vari nemici del cattolicesimo, dai re ai puritani, dagli avventurieri agli spregevoli ecclesiastici eretici e scismatici, ai calvinisti, portò ad inventare efferati sistemi di tortura e sofferenze per i cattolici arrestati.
In particolare per tutti quei sacerdoti e gesuiti, che dalla Francia e da Roma, arrivavano clandestinamente come missionari in Inghilterra per cercare di riconvertire gli scismatici, per lo più essi erano considerati traditori dello Stato, in quanto inglesi rifugiatosi all’estero e preparati in opportuni Seminari per il loro ritorno.
Tranne rarissime eccezioni, come i funzionari di alto rango (Tommaso Moro, Giovanni Fisher, Margherita Pole) decapitati o uccisi velocemente, tutti gli altri subirono prima della morte, indicibili sofferenze, con interrogatori estenuanti, carcere duro, torture raffinate come “l’eculeo”, la “figlia dello Scavinger”, i “guanti di ferro” e dove alla fine li attendeva una morte orribile; infatti essi venivano tutti impiccati, ma qualche attimo prima del soffocamento venivano liberati dal cappio e ancora semicoscienti venivano sventrati.
Dopo di ciò con una bestialità che superava ogni limite umano, i loro corpi venivano squartati ed i poveri tronconi cosparsi di pece, erano appesi alle porte e nelle zone principali della città.
Solo nel 1850 con la restaurazione della Gerarchia Cattolica in Inghilterra e Galles, si poté affrontare la possibilità di una beatificazione dei martiri, perlomeno di quelli il cui martirio era comprovato, nonostante i due - tre secoli trascorsi.
Nel 1874 l’arcivescovo di Westminster inviò a Roma un elenco di 360 nomi con le prove per ognuno di loro. A partire dal 1886, i martiri a gruppi più o meno numerosi, furono beatificati dai Sommi Pontefici, una quarantina sono stati anche canonizzati nel 1970.
Per altri 85 nel 1987, si sono conclusi gli adempimenti necessari e così il 22 novembre 1987 papa Giovanni Polo II li ha beatificati a Roma, con il capofila Giorgio Haydock, confermando il giorno della loro celebrazione al 4 maggio.
Di essi 63 sono sacerdoti, di cui 2 gesuiti, 1 domenicano, 5 francescani e 55 diocesani; gli altri 22 sono laici, fra cui il tipografo William Carter.
William Carter nacque a Londra nel 1548, fu tipografo e per anni segretario dell’ultimo Arcidiacono di Canterbury, Nicola Harpsfield, dopo la morte di questi fondò una tipografia.
In essa stampò tra altri libri cattolici, anche la nuova edizione di “Un trattato sullo scisma” di Gregory Martins; per cui nel 1580 fu arrestato, messo in prigione e torturato.
Infine fra il 10 e l’11 gennaio 1584 fu impiccato e prima di morire venne sventrato, secondo la più che barbara esecuzione in uso in quel triste periodo.
Autore: Antonio Borrelli
La Poitevinière, Francia, 26 gennaio 1736 – Avrillé, Francia, 12 gennaio 1794
Antoine Fournier nacque a La Poitevinière, nel dipartimento francese di Maine-et-Loire, il 26 gennaio 1736. Laico coniugato e padre di famiglia, lavora come artigiano ed in particolare quale maestro d’arte. Fu fucilato per la sua fedeltà alla Chiesa il 12 gennaio 1794 presso Avrillé.
Papa Giovanni Paolo II ha beatificato Antoine Fournier il 19 febbraio 1984 insieme con un gruppo complessivo di 99 martiri della diocesi di Angers, capeggiati dal sacerdote Guglielmo Repin, vittime della medesima persecuzione.
Martirologio Romano: Ad Avrillé presso Angers in Francia, beato Antonio Fournier, martire: artigiano, fu fucilato, al tempo della rivoluzione francese, per la sua fedeltà alla Chiesa.
Un Vescovo, dottore della Chiesa sposato e padre di famiglia!
Poitiers, Francia, 315? – 367
Ilario, nato a Poitiers, in Francia, intorno al 315, era un pagano che cercò il senso della vita dapprima nelle dottrine neoplatoniche, poi - dopo la lettura della Bibbia - nel cristianesimo. Nobile proprietario terriero, sposato e con una bimba, poco dopo il battesimo fu acclamato vescovo di Poitiers. Combatté l'eresia ariana attraverso le sue opere, la più famosa delle quali è il 'De Trinitate". Approfondì gli studi anche durante sei anni di esilio. Tornato in sede ebbe come collaboratore il futuro vescovo di Tours, san Martino. Morì nel 367. Pio IX lo ha proclamato Dottore della Chiesa. (Avvenire)
Etimologia: Ilario = gaio, allegro, dal latino
Martirologio Romano: Sant’Ilario, vescovo e dottore della Chiesa: elevato alla sede di Poitiers in Aquitania, in Francia, sotto l’imperatore Costanzo seguace dell’eresia ariana, difese strenuamente con i suoi scritti la fede nicena sulla Trinità e sulla divinità di Cristo e fu per questo relegato per quattro anni in Frigia; compose anche celeberrimi Commenti ai Salmi e al Vangelo di Matteo.
Questo Padre e Dottore della Chiesa nacque a Poitiers, nell'Aquitania, verso il 315, da una distinta famiglia pagana, che gli fece impartire una solida educazione letteraria e filosofica a base neoplatonica. S. Ilario stesso nel trattato De Trinitate l'espone come, agitato dal problema del nostro destino, non ne abbia trovato una risposta soddisfacente nella filosofia pagana, ma soltanto nel prologo del Vangelo di S. Giovanni, in cui è detto che il Verbo disceso dal cielo dona a coloro che lo ricevono il potere di diventare figli di Dio.
Ilario era adulto quando ricevette il battesimo, sposato e padre di una figlia, Abra. Non è improbabile che per la sua vita austera e ferventissima il vescovo della città lo abbia aggregato alla sua chiesa con qualche ordine sacro. È certo però che quando morì, Ilario gli successe nell'episcopato e si sforzò di praticare quanto scriverà più tardi: "La santità senza la scienza non può essere utile che a se stessa. Quando si insegna, occorre che la scienza fornisca un alimento alla parola e che la virtù serva di ornamento alla scienza" (De Trinitate, VIII, l). Attratto dalla fama di lui S. Martino, lasciata, la milizia, venne a mettersi alla scuola acconsentendo a lasciarsi ordinare esorcista.
"Il Santo pastore fu ben presto spinto dalle circostanze a lottare tanto strenuamente contro l'arianesimo da essere considerato l'Atanasio dell'Occidente". Molti vescovi non accettavano la dottrina di Nicea (325) della consustanzialità del Figlio di Dio con il Padre, preferendo insegnare che gli era soltanto simile. Costanzo, figlio di Costantino, pretendeva di fare accettare le loro idee da tutto l'impero, pena l'esilio. Per la difesa dell'ortodossia S. Ilario convocò forse a Parigi nel 355, un'assemblea che scomunicò Valente e Ursacio, ambiziosi vescovi di corte, persecutori di Atanasio, e Saturnino, primate di Arles. che aveva condiviso le loro violenze. Costui e i suoi complici, imbaldanziti dall'indifferenza con cui Giuliano, governatore della Gallia, trattava le dispute dei teologi, si riunirono a Béziers. Per ordine di Costanzo, Ilario dovette prendervi parte, ma avendo ricusato di aderire alla politica religiosa dell'imperatore, fu deportato nel 356 nella Frigia. I vescovi della Gallia, in maggioranza ortodossi, non vollero che un intruso s'impadronisse della sede di Poitiers. Durante il suo esilio S. Ilario poté, difatti, con lettere dirigere la sua chiesa.
Nell'Asia Minore non rimase ozioso. Approfittò del tempo per comporre il suo capolavoro, De Trinitate in 12 libri, per studiare a fondo i problemi dell'oriente con larghezza di vedute, e cercare di ricondurre gli erranti alla fede nicena. "Non ho considerato come un delitto, dirà più tardi, di aver avuto colloqui con loro, anzi, pur rifiutando loro la comunione, di entrare nelle loro case di preghiera e di sperare ciò che si doveva attendere da loro per il bene della pace, allorché aprivamo loro una via al riscatto dei loro errori mediante la penitenza, un ricorso a Cristo mediante l'abbandono dell'anticristo". (Adv. Costant. 2). La stessa sollecitudine per la conciliazione manifesterà nel De Synodis, libro scritto per informare i vescovi della Gallia riguardo alle varie professioni di fede degli orientali.
Il suo esilio durava da quattro anni, quando, nel 359, Costanzo convocò un concilio a Rimini per gli occidentali, e un altro a Seleucia, nell'Isauria, per gli orientali. Ilario vi fu accolto favorevolmente e poté esporre la fede nicena, ma la concordia non fu raggiunta per il malanimo di molti. Dopo il sinodo il santo si portò a Costantinopoli per ottenere da Costanzo il permesso di discutere pubblicamente con Saturnino che era stato la causa del suo esilio, e di comparire nel concilio che si teneva allora nella città imperiale per potervi difendere la fede ortodossa sull'autorità delle Sacre Scritture. Per tutta risposta Costanzo lo rimandò a Poitiers sobillato dagli ariani, i quali, per sbarazzarsi dello scomodo avversario, glielo avevano dipinto "come seminatore di discordia e perturbatore dell'oriente".
A Poitiers Ilario fu accolto in trionfo. Appena seppe del suo ritorno, S. Martino lo raggiunse dal suo ritiro nell'isola Gallinaria (Albenga), e sotto la direzione del suo maestro fondò a Ligugé il più antico monastero della Gallia onde neutralizzare in parte almeno i tristi effetti della eresia.
Ilario ogni tanto andava a visitare i cenobiti per seguire le loro regole e prendere parte ai loro canti. È risaputo che fu egli il primo compositore di inni dell'occidente nell'intento di contrapporsi all'attività poetica degli ariani.
La situazione politica intanto era notevolmente cambiata dal mese di maggio 360, quando i soldati di stanza a Parigi avevano gridato imperatore Giuliano. Ilario ne approfittò con decisione e moderazione per radunare sinodi provinciali, onde confermare nell'ortodossia i vescovi rimasti fedeli, e richiamarvi quelli che avevano sottoscritto per ignoranza o timore formule erronee o compromettenti, come quella del concilio di Rimini. La deposizione di Saturnino di Arles e di Paterno di Périgueux segnò la disfatta dell'arianesimo nell'occidente. La morte di Costanzo (+361) diede un colpo decisivo alla supremazia ariana in Oriente, perché i vescovi furono richiamati dall'esilio, e l'anno dopo S. Atanasio potè radunare ad Alessandria il celebre "concilio dei confessori" e adottare con successo la moderazione del vescovo di Poitiers.
S. Ilario insieme con S. Eusebio, vescovo di Vercelli, combatté pure per due anni l'arianesimo in Italia, e tentò di cacciare dalla sede di Milano, Aussenzio, che il concilio di Parigi del 361 aveva anatematizzato. Questi, nel 364, appellò all'imperatore Valentiniano, allegando i decreti del concilio di Rimini da lui fatti sottoscrivere da tanti vescovi, e accusando i suoi avversari di turbare la pace religiosa. Queste considerazioni impressionarono l'imperatore il quale mantenne Aussenzio nella sua sede, soddisfatto di una professione di fede equivoca che costui aveva fatto alla presenza di dieci vescovi e di alti funzionari. S. Ilario, ricevuto l'ordine di lasciare Milano, scrisse il suo Contra Auxentium per smascherare le ipocrite reticenze di lui e mantenere l'integrità della fede tra il popolo.
Ritiratesi nella sua diocesi, il santo poté dedicarsi ai suoi studi prediletti e al commento dei Salmi, finché lo colse la morte il 1-11-367. Le sue reliquie nel 1562 furono bruciate dagli ugonotti. Pio IX nel 1851 lo proclamò Dottore della Chiesa.
Autore: Don Guido Pettinati
Un genitore che diventa sacerdote
Capitolias (Damasco) VII secolo - † 13 gennaio 715
Etimologia: Pietro = pietra, sasso squadrato, dal latino
Martirologio Romano: A Capitolíade nella Batanea, in Siria, san Pietro, sacerdote e martire: accusato davanti al capo dei Saraceni Walid di insegnare apertamente per le strade la fede di Cristo, fu amputato della lingua, delle mani e dei piedi e, appeso alla croce, coronò la sua vita con il martirio che aveva ardentemente desiderato.
L’antica ‘passio’ attribuita a s. Giovanni Damasceno, racconta che verso la fine del VII secolo, Pietro era prete a Capitolias, borgo a vari km. dal lago di Tiberiade ed a 100 km a sud di Damasco.
Era sposato ed aveva tre figli, un maschio e due figlie; a 30 anni si sentì chiamato ad una vita di solitudine e con il consenso della moglie si ritirò in un eremo, dopo aver sistemato le due figlie più grandi in un monastero posto fuori città.
Quando il figlio ebbe 12 anni, lo alloggiò in una cella vicina alla sua, per dargli lui stesso una educazione spirituale. Tralasciando ciò che la ‘passio’ racconta sui rapporti di Pietro con la famiglia, si arriva che in prossimità dei 60 anni, Pietro cadde ammalato, perdendo la speranza di morire martire, ma fece un tentativo, mandò a chiamare tramite il suo servo, i notabili musulmani per dettare in loro presenza il testamento; infatti fece pubblicamente una professione di fede cristiana, lanciando violente invettive contro l’Islam.
I contrariati musulmani, invece di ucciderlo subito, decisero di soprassedere visto il suo stato, infatti dopo un po’ arrivò la notizia della sua morte; ma non era vero e Pietro ristabilitosi prodigiosamente, si mise a predicare in pubblico sulle piazze. I musulmani di Capitolias, redassero un rapporto ad ‘Omar figlio del califfo Walid I, il quale incaricò un suo dignitario Zora, di verificare se l’imputato fosse nelle sue facoltà mentali.
Constatato il buon stato mentale, Zora fece arrestare Pietro, inviando un rapporto ad ‘Omar. Nel frattempo il califfo Walid I cadde gravemente ammalato, mentre si trovava a Damasco, riuniti i suoi figli attorno a sé, apprese da ‘Omar la storia di Pietro il prete e ordinò che fosse condotto da lui.
Il venerdì 4 gennaio 715, Pietro arrivò nella residenza del califfo; venne sottoposto alle pressioni di ‘Omar per farlo apostatare per aver salva la vita, al suo rifiuto comparve dinanzi a Walid I, poi morto il 23 febbraio 715; l’esito dell’incontro fu la sua condanna a morte e ‘Omar ebbe l’incarico dell’esecuzione, a sua volta affidata a Zora.
Il supplizio del prete Pietro doveva consistere, una volta tornato a Capitolias e adunata la popolazione, compresi i figli del condannato, nel strappargli la lingua dalla radice, il giorno dopo saranno tagliati la mano e il piede destro, patirà per un intero giorno, poi si taglierà l’altra mano e l’altro piede e verranno bruciati gli occhi con ferro rovente.
Poi steso su una barella sarà portato in giro per la città, preceduto da araldi che inviteranno gli spettatori a riflettere su questo esempio. Dopo, il condannato sarà messo in croce lasciandocelo per cinque giorni, trascorsi i quali, il cadavere sarà bruciato in un forno incandescente; tutto di lui verrà ridotto in cenere compreso la croce e le vesti e buttato nello Yarmouk, proibito a chiunque di procurarsi una reliquia.
Il supplizio iniziato il giorno 10 gennaio ebbe termine il 13 gennaio 715. Prima di questa ‘passio’ georgiana, si conosceva di questo personaggio soltanto la breve notizia dei sinassari bizantini, celebrato al 4 ottobre.
In seguito la figura di s. Pietro da Capitoilas si è duplicata in un Pietro metropolita di Damasco e in un Pietro ‘cartulario’ di Maiouma anch’egli martire al tempo di musulmani e tutto ciò è diventata materia di discussione e studio degli esperti, al punto che anche il ‘Martirologio Romano’ aveva una triplice commemorazione in date diverse.
La nuova edizione del 2002 del ‘Martirologio Romano’ lo celebra il 13 gennaio, giorno accertato del suo martirio.
Autore: Antonio Borrelli
Martirologio Romano: Presso Huy nel territorio di Liegi, santa Ivetta, vedova, che si dedicò alla cura dei lebbrosi e visse alla fine segregata accanto a loro.
+ Nam Dinh, Vietnam, 13 gennaio 1859
Questi tre laici vietnamiti, martiri, sno stati canonizzati da Papa Giovanni Paolo II il 19 giugno 1988.
Martirologio Romano: Nella città di Nam Ðinh in Tonchino, ora Viet Nam, santi martiri Domenico Pham Trong (Án) Kham, Luca (Cai) Thìn, suo figlio, e Giuseppe Pham Trong (Cai) preferirono subire le torture e la morte piuttosto che calpestare la croce.
Un santo padre di santi
13 gennaio e 29 maggio - V secolo
Figlio di Cystennin Gorneu e fratello di s. Digain, fu padre di s. Geraint, che divenne suo successore. Ebbe una chiesa mel Galles (Erbistock) e probabilmente fu il fondatore o il patrono della chiesa di S. Ervan in Cornovaglia. Morì prima del 480 e antichi calendari gallesi lo commemorano il 13 genn. O il 29 maggio.
Autore: Justo Fernandez Alonso
m. 340 c.
Gregorio di Nissa, all'inizio della Vita di sua sorella, Macrina la Giovane, spiega che questo nome le era stato dato in ricordo della loro nonna paterna: "Macrinae virgini nomen erat, sic a parentibus appellatae, quod olim insignis quaedam in nostra familia Macrina fuerat, patris nostri videlicet mater, quae tempore persecutionum pro Christo pugnaverat".
Gregorio di Nazianzo, nella sua orazione funebre per Basilio di Cesarea, fratello di Gregorio di Nissa, fa allusione alla persecuzione di Massimino che aveva costretto gli avi di Basilio a rifugiarsi sulle montagne presso il Ponto Eusino per un periodo di circa sette anni, ed essi sopportarono i rigori delle stagioni con appena di che mangiare.
Dallo stesso Basilio sappiamo che sua nonna Macrina, fedele discepola di s. Gregorio il Taumaturgo, vescovo di Neocesarea nel Ponto Eusino, ebbe su di lui una grande influenza negli anni giovanili e che fu la sua principale educatrice (usa il termine nutrix) sul piano spirituale.
Questo è quasi tutto quello che si conosce di Macrina. Non sembra che sia mai stata onorata di un culto particolare, contrariamente a un buon numero dei suoi discendenti. I sinassari bizantini, ad ogni modo, non ne fanno menzione. C. Baronio, pur non citando per lei alcuna fonte agiografica o eortologica, l'ha introdotta nel Martirologio Romano alla data evidentemente arbitraria del 14 gennaio.
Autore: Joseph-Marie Sauget
Nattalam, India, 23 aprile 1712 - Aral Kurusady, India, 14 gennaio 1752
Durante la persecuzione contro i cristiani nel regno indiano di Travancore, Devasahayam (Lazaro) Pillai, funzionario del Maraja di Travancore), trovò la morte perché colpevole di aver abiurato l'induismo. La sua causa di beatificazione è stata introdotta nel 2004. Papa Benedetto XVI ha riconosciuto il martirio di questo laico indiano, padre di famiglia, in data 28 giugno 2012.
Note: Per approfondire: www.martyrdevasagayam.org
Quasi nostro contemporaneo, ucciso dal Nazismo...
Niederweningern, Essen, 30 settembre 1898 - 15 gennaio 1945
Martirologio Romano: A Berlino in Germania, beato Nicola Gross, padre di famiglia e martire: attivamente impegnato nell’ambito sociale, per non operare contro i comandamenti di Dio si oppose con ogni mezzo a un empio regime avverso all’umana dignità e alla fede; per questo fu gettato in carcere e, attraverso il supplizio dell’impiccagione, divenne partecipe della vittoria di Cristo.
Nikolaus Gross, un uomo come noi per estrazione e posizione sociale, nato il 30 settembre 1898, figlio di un fabbro di miniera a Niederweningern — vicino alla città di Essen — frequentò dal 1905 al 1912 la scuola elementare cattolica locale. Dapprima lavorò in un laminatoio e poi come manovale, quindi come minatore in una miniera di carbone dove per cinque anni svolse il suo lavoro in galleria.
Nel poco tempo libero cercò di migliorare la sua istruzione. Nel 1917 entrò a far parte del Gewerkverein christlicher Bergarbeiter, l'associazione sindacale dei minatori cristiani, nel 1918 nel partito Zentrumspartei e nel 1919 divenne membro dell'Antonius Knappenverein (KAB) di Niederwenigern. Già a 22 anni divenne segretario della sezione giovanile dell'associazione sindacale Christliche Bergarbeitergewerkschaft, solo un anno più tardi aiuto redattore della rivista Bergknappe. La sua ulteriore attività sindacale lo portò a Waldenburg in Slesia e, con una tappa intermedia a Zwickau, di nuovo nella Ruhr a Bottrop.
Nel frattempo aveva sposato Elisabeth Koch di Niederwenigern che nel corso di un felice matrimonio gli donò sette figli. Amava la sua famiglia più di ogni cosa e fu un padre esemplare, caratterizzato da un profondo senso di responsabilità nell'istruzione e nell'educazione alla fede.
All'inizio del 1927 diventa aiuto redattore presso la Westdeutsche Arbeiterzeitung, l'organo del KAB, di cui viene promosso ben presto capo redattore. Qui può offrire orientamento agli operai cattolici in molte questioni che riguardano la società ed il mondo del lavoro, con questo diventa sempre più chiaro che per lui le sfide politiche contengono un aspetto morale e che i compiti sociali non si possono risolvere senza sforzi spirituali. Il redattore diventa un apostolo della fede di cui dare testimonianza anche nella stampa. Quando con questa funzione si trasferisce nella Ketteler Haus di Colonia, cioè nel 1929, ha già un chiaro giudizio sul nazionalsocialismo che sta nascendo. Partendo dal principio del Vescovo Ketteler che la riforma della situazione sociale si può raggiungere solo con una riforma dell'atteggiamento interiore, ravvisa «immaturità politica» e «carenza di discernimento» nei successi dei nazionalsocialisti nella società. Già allora definisce i nazisti come «nemici mortali dello stato odierno». Come redattore dell'organo del KAB scrive il 14 settembre 1930: «Come lavoratori cattolici rifiutiamo il nazionalsocialismo non solo per motivi politici ed economici, ma in particolare anche per il nostro atteggiamento religioso e culturale in modo chiaro e deciso».
Già alcuni mesi dopo la presa del potere di Hitler nel 1933 il leader del Deutsche Arbeiterfront, Robert Ley, definì la Westdeutsche Arbeiterzeitung del KAB «nemica dello stato». Nel periodo, successivo Groß cercò di salvare il giornale dalla soppressione senza dover fare dei compromessi nel contenuto. Da allora in poi riuscì a scrivere tra le righe in modo che le persone addentro lo capissero. Nel novembre del 1938 il giornale dei lavoratori, nel frattempo ribattezzato Kettelerwacht, venne vietato definitivamente. Groß, che aveva dovuto lottare molto per la sua qualifica, non era un grande oratore, ma parlava in modo persuasivo, caloroso e convincente. Il fatto che Nikolaus Groß si unisse all'opposizione in Germania, derivò dalla sua convinzione nella fede cattolica. Per lui era valido il principio «che si deve obbedire più a Dio che all'uomo. Se ci viene chiesto qualcosa contrario a Dio o alla fede, non solo è nostro dovere morale, ma è anche nostro dovere assoluto rifiutare di obbedire (agli uomini)». Così scriveva Nikolaus Groß nel 1943 riguardo alla dottrina religiosa. Sempre più chiaramente si rendeva conto che questa situazione in Germania si sarebbe raggiunta sotto il regime di Hitler.
Le comuni riflessioni vennero fissate da Groß in due annotazioni, che poi caddero nelle mani della Gestapo: Die großen Aufgaben e Ist Deutschland verloren? che contribuirono alla sua condanna.
A partire dal 1940 Groß dovette subire interrogatori e perquisizioni. Dopo che il giornale dell'associazione venne vietato pubblicò una serie di brevi scritti che avevano lo scopo di fortificare nei lavoratori la coscienza nella fede e nei valori etici.
La risposta ai motivi che spingevano uomini come Nikolaus Groß la troviamo nelle memorie del noto padre spirituale di tanti uomini, il prelato Caspar Schulte di Paderborn, che dice: «Nei miei molti colloqui, soprattutto con Nikolaus Groß ed il presidente ecclesiastico dell'associazione Otto Müller, ho imparato a conoscere e ad ammirare la grandezza morale di questi uomini». Non sono andati a morire casualmente. Hanno seguito la loro strada anche pronti ad affrontare una morte dolorosa per il bene della libertà. Il giorno prima dell'attentato dissi a Nikolaus Groß: «Signor Groß, non si dimentichi che ha sette figli. Io non ho la responsabilità di una famiglia. Si tratta della sua vita». E Groß mi diede una risposta degna della sua vera grandezza spirituale: «Se oggi non ci impegniamo con la vita, come vogliamo superare la nostra prova davanti a Dio e al nostro popolo?».
Dopo l'attentato, fallito, del 20 luglio 1944 gli eventi precipitarono. Groß, che non aveva partecipato direttamente alla sua preparazione ed esecuzione, venne arrestato il 12 agosto 1944 verso mezzogiorno a casa sua e portato dapprima nel carcere di Ravensbrück e poi in quello di Tegel a Berlino. La moglie Elisabeth venne due volte a Berlino a trovarlo. Essa riferì di chiari segni di torture alle mani e alle braccia. Le lettere dal carcere di Nikolaus Groß testimoniano in modo convincente che per lui la preghiera continua fosse la fonte di forza nella sua posizione difficile e, alla fine, disperata. Non c'è quasi lettera in cui non si lasci sfuggire l'occasione di chiedere alla moglie e ai figli di pregare continuamente come lui stesso pregava giorno dopo giorno per la sua famiglia.
Nella preghiera si sapeva legato alla famiglia, allo stesso tempo però anche in uno scambio continuo con Dio.
Nelle sue lettere Nikolaus Groß mostra continuamente di credere che il suo destino ed il destino della sua famiglia era nelle manidi Dio.
Il 15 gennaio 1945 venne pronunciata la sentenza di morte da parte del Presidente del tribunale del popolo Roland Freisler. L'osservazione finale nei verbali ed in realtà l'unica motivazione della sentenza: «Nuotava insieme agli altri nella corrente del tradimento e quindi vi deve anche affogare!». I nazisti non facevano dei martiri. All'impiccato non concessero una tomba: per i fautori di menzogne e di odio c'era solo la brutale eliminazione.
La testimonianza della verità e della fede non si può però estinguere, continua a vivere in coloro che ci hanno preceduto, illuminando il nostro cammino. Il cappellano del carcere Buchholz, che da un nascondiglio diede la benedizione al condannato a morte per il suo ultimo breve tragitto, riferì poi: «Groß abbassò il capo in silenzio. Il suo viso sembrava già illuminato dallo splendore dal quale stava per venire accolto».
La sepoltura cristiana gli venne negata dal partito al potere e il suo cadavere venne cremato e le ceneri disperse sui campi gelati.
Fonte: Santa Sede
16 gennaio - I sec. ?
Il nome di questa santa presenta un complesso problema agiografico – archeologico; essa fu inserita come matrona romana, nel ‘Martirologio Romano’ nel secolo XVI; è diventata controversa la sua identificazione. Potrebbe essere la moglie del martire Aquila che porta il suo stesso nome Priscilla e che a sua volta è detta anche Prisca, ricordata negli Atti degli Apostoli e nella lettera di s. Paolo.
Oppure può essere identificata con l’omonima fondatrice del cimitero sulla nuova via Salaria (Catacombe di Priscilla). In ogni modo non vi sono notizie di un culto, prima dell’inserimento nel ‘Martirologio Romano’ al 16 gennaio, da parte del grande Cesare Baronio.
Etimologia: Priscilla = (come Prisco) primitivo, di un'altra età, dal latino
La tradizione agiografica accolta nel Martirologio Romano ricorda al 16 gennaio una santa Priscilla che sarebbe stata moglie di Manlio Acilio Glabrione e madre del senatore Pudente, e che avrebbe ospitato san Pietro nella propria villa a Roma situata nei pressi del cimitero di Priscilla sulla via Salaria: il nome e la data compaiono in manoscritti tardi del Martirologio Geronimiano, sulla base dei quali sono confluiti nel Romano. L'identificazione resta delle più problematiche, fondandosi sulla evidente contaminazione di diverse leggende romane e di dati di natura archeologica ed epigrafica: il celebre cimitero sulla via Salaria, luogo della deposizione di martiri e di papi del IV sec. (Marcellino, Marcello, Silvestro, Liberio, secondo la Depositio episcoporum e il Liber pontificalis), è verosimilmente all'origine dello statuto di santità attribuito all'eponima fondatrice, forse membro della gens Acylia (una Priscilla di rango senatorio, sorella di Manius Acilius Vero, è ricordata in un'epigrafe nell'ipogeo degli Acilii Glabrioni situato nell’area), oppure - come ritenuto da qualche studioso - una liberta.
Secondo lo stesso meccanismo, com'è noto, divennero spesso oggetto di culto e di elaborazione agiografica gli eponimi di tituli basilicali romani, considerati come santi locali oppure identificati con martiri forestieri. Si pensi al caso di sant’Anastasia, oppure a quello - assai significativo in rapporto al problema dell'identificazione di santa Priscilla - di una martire Prisca venerata a Roma nel VII sec., commemorata il 18 gennaio e sepolta - secondo gli itinerari coevi - nello stesso cimitero: è però da ritenere che si trattasse della fondatrice di un titulus sull'Aventino, menzionato in un'epigrafe del V secolo e negli atti del sinodo del 499; più tardi, al sinodo del 595, la chiesa viene ormai chiamata titulus sanctee Priscae, e nel sec. VIII la fondatrice viene identificata con la Prisca (o Priscilla) moglie di Aquila, di cui parlano san Paolo (Rm 16,3; 1Cor 16,19) e gli Atti degli Apostoli (18,2 e 18), si che il titulus - denominato Aquile et Prisce nel Liber pontificalis, II, 20, 24 e 42-43 - viene messo in relazione con le memorie apostoliche e con la stessa attività di Pietro e di Paolo a Roma.
La vicinanza delle date di commemorazione (16 e 18 gennaio), la somiglianza dei nomi e la costante rappresentata dal cimitero sulla Salaria deporrebbero a favore dell'ipotesi di una confusione o di una sovrapposizione tra le due sante: ad entrambe tradizioni tarde tendono infatti ad attribuire l’identità prestigiosa - accreditata dalla fonte neotestamentaria - dell'ospite di san Paolo a Corinto, attiva con il marito Aquila nella prima catechesi cristiana. Aquila e Prisca (o Priscilla) vi erano giunti da Roma in seguito all'espulsione dei Giudei locali decretata nel 49 dall'imperatore Claudio; nella capitale d'Acaia offrirono ospitalità a Paolo, e più tardi si misero in viaggio con lui, stabilendosi a Efeso; al tempo dell'Epistola ai Romani (58) si trovavano a Roma, come prova l'affettuoso e grato saluto loro rivolto dall'Apostolo (16,3-5); una notizia più tarda, nella Seconda Lettera a Timoteo (4,19), ne riferisce il ritorno a Efeso: l’attribuzione ai due coniugi della qualità di "apostoli e martiri", presente nel Sinassario Costantinopolitano alla data del 13 febbraio, non ha fondamento, e sembra un'amplificazione dell'allusione di san Paolo ai rischi che costoro avrebbero corso per la sua salvezza (Rm 16,3).
L'origine romana della coppia, la grafia greca del nome Aquila (Acylas), che rimanderebbe alla gens Acylia collegata con il cimitero sulla Salaria, e la presenza epigraficamente attestata nello stesso luogo di una Priscilla (nonché quella di una martire Prisca ricordata negli Itinerari del VII sec.), hanno certamente contribuito ad accreditare l'identificazione e a provocare la confusione di personaggi e di tempi. Va aggiunto inoltre che a comporre la leggenda che metteva in relazione Priscilla (o Prisca) con l’attività di Pietro a Roma concorse la contaminazione con il ciclo agiografico relativo alle sante Pudenziana e Prassede, figlie del senatore Pudente (secondo la tradizione <>) e nipoti di una Priscilla, tutti sepolti nel cimitero sulla via Salaria.
Una Priscilla matrona romana compare inoltre nella Vita di s. Marcello di Anastasio Bibliotecario (sec. IX), come colei alla quale il papa si sarebbe rivolto per la costruzione del cimitero poi ricordato sotto il suo nome: la notizia e la conseguente identificazione con la fondatrice sono evidentemente frutto della fantasia dell'agiografo. È in ogni caso interessante notare che il 16 gennaio, ricorrenza di santa Priscilla, è anche la data tradizionale della depositio nel cimitero sulla Salaria di papa Marcello (Lib. pont., I, 164): segno ancora una volta dell'originario legame tra il cimitero di Priscilla e il moltiplicarsi delle leggende agiografiche sulla fondatrice, incrementate dalla fame dei personaggi ivi deposti.
Autore: M. Forlin Patrucco
Cividate Camuno, Brescia, 14 marzo 1841 - Brescia, 16 gennaio 1897
"Le nostre Indie sono le nostre scuole". Voleva diventare missionario il beato bresciano Giuseppe Tovini. E nei suoi 55 anni di vita (nacque a Cividate Camuno nel 1841 e morì a Brescia nel 1897) fu un apostolo nei campi più diversi del sociale: la scuola, appunto, e poi l'avvocatura, il giornalismo, le banche, la politica, le ferrovie, le società operaie, l'università. Dopo gli studi, lavorò presso l'avvocato bresciano Corbolani. Ne sposò la figlia Emilia, con cui ebbe 10 bambini. Innumerevoli le cariche che ricoprì e le istituzioni cui diede vita: sindaco, consigliere provinciale e comunale, presidente del Comitato diocesano dell'Opera dei congressi; fondatore di casse rurali, della Banca San Paolo di Brescia, del Banco Ambrosiano di Milano, del quotidiano «Il Cittadino di Brescia» e della rivista «Scuola italiana moderna», di varie altre opere pedagogiche e dell'«Unione Leone XIII», che sfocerà nella Fuci. Attività che traevano linfa da un'intensa vita spirituale di stile francescano (era terziario). (Avvenire)
Martirologio Romano: A Brescia, beato Giuseppe Antonio Tovini, che, maestro, aprì molte scuole cristiane e fece costruire opere pubbliche, dando sempre, in ogni sua attività, testimonianza di preghiera e di virtù.
Ecco un laico impegnato nell’apostolato, partecipe dei fermenti politici, religiosi, culturali del suo tempo, in una Brescia in continua evoluzione storica.
Giuseppe Tovini nacque a Cividate Camuno, nella provincia bresciana il 14 marzo 1841, primo di sette fratelli; ebbe sin dall’infanzia un’educazione particolarmente austera, secondo le tradizioni religiose e morali del luogo, influenzate da un sottile giansenismo, diffuso un po’ dovunque in Val Camonica e nel suo paese.
A ciò si aggiunse la ferrea disciplina delle scuole elementari frequentate a Cividate e poi a Breno. Nel 1852 a 11 anni, entra nel Collegio municipale di Lovere dove rimane per sei anni, ma le condizioni economiche della famiglia, non gli permettono più di restare a continuare gli studi intrapresi; interviene in aiuto uno zio sacerdote che gli fa ottenere un posto gratuito presso il Collegio per giovani poveri, fondato a Verona dal Servo di Dio don Nicola Mazza.
Nel luglio 1859 gli muore il padre e lui si trova a 18 anni con cinque fratelli minori da mantenere, con una situazione economica disastrosa. Abbandona così l’idea di farsi missionario, dopo lunga e sofferta meditazione sul proprio stato; per tutti era chiaro, data la sua vita di giovane integerrimo e religioso, che si sarebbe fatto sacerdote, quindi fu grande meraviglia quando Giuseppe Tovini, conseguita la licenza liceale nel 1860, si scrive come privatista alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Padova, per gli anni 1860-64.
Un sacerdote lo aiuta a rimanere ospite del collegio “Mazza”, trovandogli un lavoro presso lo studio di un avvocato; il piccolo stipendio viene arrotondato dando lezioni private. Il 7 agosto 1865, si laurea brillantemente, ma la gioia è offuscata dalla perdita della mamma, avvenuta cinque mesi prima; la laurea fu presa all’Università di Pavia, dove si era trasferito un anno prima, sembra per avere un titolo valevole nel territorio del Regno d’Italia.
Si mette a lavorare presso gli studi di un avvocato e di un notaio di Lovere, mentre ha anche il compito di vicerettore e professore nel Collegio municipale locale, questo incarico durerà due anni, con la soddisfazione di tutti; si distingue perché è il solo a recitare le preghiere prima e dopo le lezioni e far la Comunione ogni domenica.
Nel 1867 si trasferisce a Brescia, dove divenuto avvocato, entra nello studio dell’avv. Corbolani in via Palazzo Vecchio, e qui poi prende la decisione definitiva della sua vita, scegliendo il matrimonio.
Il 6 gennaio 1875 si unisce in matrimonio con Emilia Corbolani, figlia del titolare dello studio dove lavora. Dalla loro unione nascono ben 10 figli, di cui uno diverrà sacerdote e due religiose; si dimostra padre affettuoso e premuroso, educatore attento ad inculcare nei figli i principi della morale cattolica, inflessibile nel reprimere le deviazioni.
Dal 1871 al 1874 viene eletto sindaco di Cividate, che poi gli dedicherà un monumento nella piazza, promuove varie iniziative per attuare opere pubbliche, sgrava il Comune dai molti debiti; fonda nel 1872 la Banca di Vallecamonica in Breno, di cui stende lo Statuto; inizia gli studi per un collegamento ferroviario che va da Brescia ad Edolo, per risollevare l’economia della Valle, opera che sarà realizzata dopo la sua scomparsa.
Sempre seguito e consigliato da dotti e santi sacerdoti, partecipa alla Fondazione del quotidiano “Il Cittadino di Brescia” pubblicato dal 13 aprile 1878, di cui diventa amministratore; sempre dal 1878 diviene Presidente del Comitato diocesano dell’Opera dei Congressi e da lì in poi, il suo ruolo nelle attività e iniziative istituite dalla diocesi, diviene di primaria importanza; percorre tutta la Provincia per promuovere ben 145 comitati parrocchiali.
Si candida come cattolico alle elezioni amministrative, venendo eletto come consigliere provinciale e poi dal 1882 consigliere comunale di Brescia, incarico che terrà fino alla morte. Per brevità di spazio si omette di descrivere tutte le innumerevoli iniziative ed istituzioni da lui ispirate, promosse, fondate in Brescia e Lombardia, come pure a livello nazionale, nel campo della scuola, della stampa, istituti di credito, opere pie, assistenziali, caritative, sociali.
La preoccupazione di una sempre più profonda presenza della Chiesa nel mondo del lavoro, lo induce a partire dal 1881, a fondare le ‘Società Operaie Cattoliche’ che cominciando da Lovere si estenderanno in tutta la Lombardia, tanto che nel 1887 queste fiorenti Società possono celebrare il loro primo congresso.
Nel 1885 propone la fondazione dell’“Unione diocesana delle società agricole e delle Casse Rurali”; nel 1888 fonda a Brescia la ‘Banca S. Paolo’ e nel 1896 a Milano il ‘Banco Ambrosiano’.
Nel 1882 fonda l’asilo “Giardino d’Infanzia di S. Giuseppe” e il collegio “Ven. A. Luzzago”; il Patronato degli Studenti nel 1889; l’Opera per la conservazione della fede nelle scuole d’Italia, nel 1890.
Nel 1892 promuove l’erezione di Circoli universitari cattolici, collabora alla fondazione della “Unione Leone XIII” di studenti bresciani, da cui nascerà la FUCI. Nel 1893 fonda la rivista pedagogica e didattica “Scuola Italiana Moderna”, primo periodico cattolico a diffusione nazionale per i maestri.
L’educazione cristiana, l’azione pedagogica, la scuola, costituiscono la sua opera preminente, per questa si sente apostolo e missionario, dice: “le nostre Indie sono le nostre scuole”.
Il dinamismo di Giuseppe Tovini si rivela veramente sorprendente, se si considera la sua gracile costituzione fisica e le cagionevoli condizioni di salute, che a partire dal 1891, andranno man mano peggiorando. Egli oltre ciò che è stato detto, fu soprattutto uomo di Dio, la sua pietà, il suo ritmo di vita devoto, il suo fervore eucaristico, la devozione alla Madonna, lo spirito e la visione francescana da terziario della vita, il profondo ‘senso della Chiesa’, non sono divisi dall’esercizio eroico delle virtù teologali e cardinali.
L’avvocato bresciano, dopo aver percorso il suo cammino terreno di apostolo laico, muore a soli 55 anni il 16 gennaio 1897. La sua salma il 10 settembre 1922 fu solennemente traslata dal cimitero alla chiesa di S. Luca in Brescia, dove riposa tuttora.
L’8 maggio 1948 si aprirono i processi per la sua beatificazione, conclusasi con la solenne cerimonia della proclamazione, celebrata da papa Giovanni Paolo II a Brescia, il 20 settembre 1998.
Autore: Antonio Borrelli
Martirologio Romano: In Cappadocia, nell’odierna Turchia, santi martiri Speusippo, Elasippo, Melasippo, fratelli, e la loro nonna Leonilla.
Ferrara, 1230 - 18 gennaio 1262
Martirologio Romano: A Ferrara, beata Beatrice d’Este, monaca, che, alla morte del marito, avendo rinunciato al regno di questo mondo, si consacrò a Dio in un monastero da lei stessa fondato sotto la regola di san Benedetto.
Le poche notizie biografiche ci sono pervenute dall'atto di monacazione, dal testamento del padre, dalla breve biografia di un monaco padovano, quasi contemporaneo, da un cenno nella Chronica parva ferrariensis e dalla biografia di una monaca ferrarese (Monastero di S. Antonio Abate, Catasto dei privilegi del sec. XVI ed altra copia del sec. XV in Bibl. Ariostea, fondo Antonelli, n. 503). I Bollandisti si limitano a riportare passi di vari autori (Padovano, Signa, martirologi benedettini) ed un miracolo del 1628.
Figlia di Azzo IX (VII), marchese d'Este e signore di Ferrara, e di Giovanna di Puglia, Beatrice nacque in Ferrara intorno al 1230. Educata agli esempi della zia Beatrice, monaca a Gemmola (Padova), e della nonna Leonora di Savoia, fu data in sposa (1249) a Galeazzo, figlio di Manfredi e podestà di Vicenza. Nel raggiungerlo a Milano, ebbe la dolorosa notizia della sua morte in battaglia contro Federico II. Ritornata a Ferrara, si ritirò a vita monastica nell'isoletta di S. Lazzaro, ad ovest della città, con alcune damigelle di corte, ricevendo l'abito di s. Benedetto. Cresciuto il numero delle religiose, ottenne dal papa Innocenzo IV di trasferirsi nel monastero di S. Stefano della Rotta (1257), presso il quale sorse la chiesa di S. Antonio abate, costruita nel 1267. Beatrice emise i voti nelle mani del vescovo Giovanni, abbracciando la regola di s. Benedetto il 25 marzo 1254. Vissuta santamente, morì il 18 gennaio 1262, e non, come ritenne il Muratori, nel 1270. Fu sepolta in un'ala del gran chiostro trasformata in cappella, e il suo sepolcro fu meta di pellegrinaggi.
Clemente XIV ne approvò il culto il 23 luglio 1774 e Pio VI concesse la Messa e l'Ufficio proprio nel 1775, fissandone la celebrazione al 19 gennaio, poiché il 18 ricorreva la festa, ora soppressa, della Cattedra di s. Pietro in Roma. Dal suo sepolcro marmoreo, in certi periodi dell'anno, trasuda miracolosamente un liquido e dalle sue ossa si sprigiona un delicato profumo. Le molte grazie ottenute in occasione di calamità pubbliche rendono il luogo oggetto di grande venerazione.
Autore: Dante Balboni Fonte: Enciclopedia dei Santi
sec. III
Subì il martirio sotto Claudio II, nel III secolo, venne sepolta sulla Via Ostiense e traslata sull’Aventino. E’ probabile che sia stata la fondatrice di un’antica chiesa sull’Aventino. Tutto ciò che si racconta su di lei, sono leggende, e le informazioni che si hanno sono contraddittorio e ci rimandano a tre persone diverse.
Etimologia: Prisca = primitiva, di un'altra età, dal latino
Emblema: Palma
Martirologio Romano: A Roma, commemorazione di santa Prisca, nel cui nome è dedicata a Dio una basilica sull’Aventino.
E’ difficile stabilire la vera identità di questa martire romana, nonostante i numerosi documenti antichi, poiché le varie notizie che la riguardano si riferiscono probabilmente a tre persone diverse. La celebrazione odierna vuole comunque onorare la fondatrice della chiesa titolare sull'Aventino, alla quale si riferisce l'epigrafe funeraria del V secolo, conservata nel chiostro di S. Paolo fuori le mura. L'antica chiesa, cara a chi ama riscoprire gli angoli intatti dell'antica Roma, nell'ombra discreta e riposante delle sue navate, sorge sulle fondamenta di una grande casa romana del II secolo, come hanno provato recenti scavi archeologici.
Ma gli Acta S. Priscae, che ne fissano il martirio sotto Claudio II (268-270) e la sepoltura sulla via Ostiense, donde poi il suo corpo sarebbe stato portato sull'Aventino, non hanno maggiori titoli di credibilità della suggestiva leggenda, che colloca S. Prisca nell'epoca in cui S. Pietro svolse il suo lavoro missionario a Roma.
Secondo questa leggenda, la santa sarebbe stata battezzata all'età di tredici anni dallo stesso Principe degli apostoli e avrebbe coronato il suo amore a Cristo con la palma del martirio, stabilendo al tempo stesso un primato, suggerito anche dal nome romano, che significa "prima": ella sarebbe stata infatti la prima donna in Occidente a testimoniare col martirio la sua fede in Cristo. La protomartire romana sarebbe stata decapitata durante la persecuzione di Claudio, verso la metà del primo secolo. Il corpo della giovinetta venne sepolto, sempre secondo questa tradizione, nelle catacombe di Priscilla, le più antiche di Roma.
Nel secolo VIII si cominciò ad identificare la martire romana con Prisca, moglie di Aquila, di cui parla S. Paolo: "Salutate Prisca e Aquila, miei collaboratori in Gesù Cristo, i quali hanno esposto la loro testa per salvarmi la vita. Ad essi devo rendere grazie non solo io, ma anche tutte le chiese dei gentili" (Rm 16,3). Si cominciò così a parlare del "titulus Aquilae et Priscae" modificando il primitivo titolo di cui si ha notizia già nel sinodo romano del 499. Il titolo cardinalizio con cui si è voluto onorare la chiesa di S. Prisca, una santa oggi quasi dimenticata dai calendari, sta a testimoniare la devozione che fin dai primi secoli di vita cristiana riscuoteva questa "primizia" dell'umile pescatore di Galilea. La chiesa di S. Prisca, sorta sul luogo di una casa romana che secondo la leggenda avrebbe ospitato S. Pietro, conserva nella cripta un capitello cavo, usato dallo stesso apostolo, per battezzare i catecumeni.
Autore: Piero Bargellini
† 496
Martirologio Romano: A Foix nella Gallia narbonense, nell’odierna Francia, transito di san Volusiano, vescovo di Tours, che, catturato dai Goti, in esilio rese lo spirito a Dio.
San Volusiano fu vescovo di Tours, nell’odierna Francia centrale, dal 488 al 496, quando morì, all’epoca della conversione del re merovingio Clodoveo, fattore che avrebbe dato un grande impulso al cristianesimo nelle Gallie. San Gregorio di Tours, vissuto un secolo dopo, scrivendo a proposito del santo predecessore riferì che Volusiano era stato attaccato dai Goti e questi alla fine riuscirono addirittura a scacciarlo dalla sua sede, costringendolo così all’esilio in terra spagnola. Racconti successivi riferirono invece che il vescovo venne decapitato per mano degli invasori ed il suo martirio sarebbe dunque stato all’origine del suo culto.
A quel tempo vi erano ancora dei vescovi latini coniugati ed anche Volusiano era sposato: aveva una moglie talmente bisbetica che, con il suo caratteraccio, terrorizzava tutti i suoi conoscenti. Prova di ciò sta nella risposta che Ruricio, vescovo di Limoges, diede a Volusiano quando questi gli scrisse esponendogli il suo timore verso i goti: “timere hostem non debet extraneum qui consuevit sustinere domesticum”, cioè che chiunque ha già un nemico terribile in casa sua non ha nulla da temere da quelli esterni.
Autore: Fabio Arduino
Una intera famiglia martire!
Persia ? - Roma inizi IV sec.
La tradizione vuole che siano stati due coniugi andati a Roma con i loro due figli per venerare le reliquie dei martiri. Giunti in città si narra che aiutarono il prete Giovanni a seppellire 267 martiri nella Via Salaria. Scoperti, furono condotti in tribunale e decapitati.
Etimologia: Mario = maschio, dal celtico (famosa la 'gens Maria')
Martirologio Romano: Sulla via Cornelia a tredici miglia da Roma nel cimitero ad Nymphas, santi Mario, Marta, Audíface e Abaco, martiri.
Mario è uno dei nomi più diffusi in Italia (è al quarto posto), presente anche in diverse varianti come Mariolino, Marietto, Mariuccio, Mariano, per quest’ultimo nome, divenuto indipendente, bisogna dire che lo portarono diversi santi e beati ed è particolarmente legato al culto della Vergine, detto appunto ‘mariano’.
Ma il nome Mario non è come si crede comunemente, il maschile di Maria, ma riprende l’antico gentilizio (cognome) romano ‘Marius’ a sua volta derivato dall’etrusco ‘maru’ (maschio).
La sua diffusione è iniziata a partire dal Rinascimento, per la ripresa del nome del politico e militare romano, il generale e console Mario, avversario dell’aristocratico Silla, considerato un difensore del popolo e della democrazia, morto nell’86 a.C.
In ambito cristiano si venera s. Mario il 19 gennaio, anche se in altri antichi Martirologi, la sua celebrazione era al 20 gennaio, insieme alla moglie Marta ed ai figli Audiface ed Abaco, tutti martiri a Roma. Secondo una leggendaria ‘passio’ del VI secolo, i quattro martiri componenti della stessa famiglia, persiani di origine, lasciarono la loro patria, per recarsi a Roma a venerare le reliquie dei martiri, come facevano in quei tempi molti cristiani.
Alcuni antichi ‘Martirologi’ collocano questa venuta a Roma e le successive fasi, negli anni 268-270, al tempo del regno di Claudio II, quando notoriamente si sa che non vi furono persecuzioni contro i cristiani; la recente edizione del ‘Martyrologium Romanum’ indica l’inizio del secolo IV come data del loro martirio, da queste date possiamo desumere, che la famiglia persiana cristiana, sia stata ospite o stabilizzata a Roma, per un certo numero di anni; del resto il secolo III fu un periodo di grande espansione del cristianesimo e di tolleranza nei loro confronti, almeno fino alla vecchiaia di Diocleziano, quando nel 293, spinto dal console Galerio, emanò tre editti di persecuzione.
A Roma essi si associarono al prete Giovanni, nel dare una degna sepoltura a 260 martiri sulla Via Salaria, evidentemente vittime della suddetta persecuzione di Diocleziano, che giacevano decapitati e senza sepoltura, in aperta campagna.
Purtroppo questa pietosa opera non poteva passare inosservata, dato anche il gran numero di corpi, per cui Mario ed i suoi familiari furono scoperti, arrestati e condotti in tribunale. Prima il prefetto Flaviano e poi il governatore Marciano, seguendo le norme degli editti imperiali li interrogarono, invitandoli a sacrificare agli dei; avendo essi rifiutato, furono condannati alla decapitazione, per i tre uomini, il martirio avvenne lungo la Via Cornelia, mentre per Marta avvenne presso uno stagno poco distante, ‘in Nimpha’.
I loro corpi raccolti dalla pia matrona romana Felicita, furono sepolti in un suo possedimento agricolo chiamato ‘Buxus’, oggi Boccea, sulla stessa Via Cornelia. Fin qui il racconto della ‘passio’ del VI secolo, poi successivi studi danno diverse formulazioni alla vicenda, ritenendo leggendaria l’origine persiana e il fatto di essere di un’unica famiglia (volendo tenere conto che nelle ‘passio’ leggendarie dei primi secoli, c’era la tendenza a trasformare gruppi di martiri abitanti magari nella stessa località, come appartenenti ad un nucleo familiare).
Secondo questi studiosi è probabile che il gruppo, siano dei cristiani non legati da vincoli familiari, abitanti a Lorium, in una villa imperiale distante dodici miglia da Roma. Sul luogo del martirio, nella tenuta di Boccea, sorse poi una chiesa, di cui sono ancora visibili i ruderi e che durante tutto il Medioevo fu meta di pellegrinaggi.
Per quanto riguarda le loro reliquie, esse ebbero vicende molto complicate, alcune furono traslate a Roma nelle chiese di S. Adriano e di Santa Prassede, e parte di esse nell’828, furono inviate ad Eginardo, il biografo di Carlo Magno, che le donò, come era uso allora, al monastero di Seligenstadt.
Autore: Antonio Borrelli
Hongju, Corea del Sud, 1823 - Tai Kon, Corea del Sud, 21 gennaio 1867
Il laico coreano Giovanni Yi Yun-il, padre di famiglia, contadino e catechista, rimase fedele alla fede cristiana anche dopo immani torture ed infine fu decapitato, ultima vittima di una spaventosa persecuzione in questa regione. E’ stato canonizzato da Papa Giovanni Paolo II il 6 maggio 1984.
Martirologio Romano: Nel territorio di Daegu in Corea, santo martire Giovanni Yi Yun-il: padre di famiglia, contadino e catechista, vinte le percosse e la frattura delle membra, rimase fermo nella fede cristiana e con animo sereno ricevette il martirio per decapitazione, ultima vittima della grande persecuzione attuata in questa nazione.
Baviera, II metà del VI secolo - Ravenna, 628
Figlia del re di Baviera Garibaldo, sposò nel 589 il re longobardo Autari. Rimasta vedova nel 589, sposò due anni dopo il duca di Torino Agilulfo, al quale trasmise il titolo regio. Si prodigò, con la collaborazione del papa San Gregorio Magno, nella conversione al cristianesimo del popolo longobardo. Alla morte del secondo marito nel 616 resse il governo a nome del figlio Adaloaldo ancora minorenne. Morirono insieme a Ravenna nel 628.
Teodolinda era figlia del re di Baviera Garibaldo che, stretto da una parte dai Franchi e dall'altra dai Longobardi, per sicurezza volle stringere un legame di parentale con i Franchi, promettendo la figlia Teodolinda al giovanissimo re Childelberto II. Ma questo progetto andò in fumo e Teodolinda fu allora data in sposa al re longobardo Autari. I due novelli sposi trasferirono la capitale del regno longobardo a Monza.
La regina Teodolinda, di religione cattolica, intratteneva una fitta corrispondenza con il papa San Gregorio Magno, finalizzata alla conversione al cristianesimo del popolo del quale era divenuta regina. Non riuscì, però, a convertire il marito Autari, che non accettava che venissero battezzati i figli dei longobardi. Ma Teodolinda riuscì comunque a far battezzare a Monza il figlio Adaloaldo. Rimasta vedova nel 589, sposò due anni dopo il duca di Torino Agilulfo, al quale trasmise il titolo regio. Alla morte del secondo marito nel 616 resse il governo per nove anni a nome del figlio Adaloaldo ancora minorenne.
La cristianizzazione dei longobardi era continuata durante il periodo della sua reggenza, nonostante la dura opposizione ed ostilità di alcuni duchi aderenti all’eresia ariana. Dopo alcuni mesi dal suo avvento al trono il giovane Adeovaldo fu dunque spodestato dal duca di Torino Ariovaldo e dovette fuggire da Milano con la madre Teodolinda. Si rifugiarono a Ravenna presso l’esarca bizantino Eleuterio. Nel 628 morirono entrambi, Teodolinda probabilmente di vecchiaia, mentre Adeovaldo forse avvelenato. Fu venerata come beata, ma il suo culto non fu mai confermato ufficialmente dalla Chiesa.
Autore: Fabio Arduino
Pisa, 1355 - 1431
Rimasta vedova due volte, vide morire tutti i suoi sette figli; allora per consiglio di s. Caterina da Siena, prima prese l'abito del Terz'Ordine, poi entrò nel monastero fondato dalla b. Chiara Gambacorta a Pisa. Qui visse come monaca, tutta dedita alla contemplazione e alla penitenza. Successe alla b. Chiara nel governo della comunità, fino alla morte avvenuta il 22 gennaio.
Martirologio Romano: A Pisa, beata Maria Mancini, che, rimasta per due volte vedova e perduti tutti i figli, dietro esortazione di santa Caterina da Siena, iniziò la vita comunitaria nel monastero di San Domenico, che guidò per dieci anni.
La Beata Maria Mancini fu discepola di Santa Caterina da Siena e da lei ereditò l’ardente desiderio del ritorno dell’Ordine al suo primitivo splendore. Dopo aver condotto una vita di gran perfezione nello stato del matrimonio, unendosi con Baccio Mancini, e poi in quello vedovile, periodo nel quale perse anche i suoi due bambini, anelante al completo sacrificio di se, dopo essere passata a seconde nozze con Guglielmo Spezzalaste, dal quale ebbe sei figli, che ben presto trovarono anche loro la morte, entrò, ancor giovane, a venticinque anni, nel Monastero Domenicano di Santa Croce, in provincia di Pisa. In questo sacro asilo era invalso il deplorevole abuso della vita privata, che, infiltratosi nell’Ordine, ne minava la disciplina regolare fin dalle fondamenta. Animata dai più santi ideali, Maria non si lasciò trascinare dalla corrente. Le più timide consorelle, rianimate dai suoi esempi e dal suo fervore, le si strinsero intorno ed essa vide in breve intorno a sé un bel gruppo di religiose ferventi tra le quali brillava la giovanissima Chiara Gambacorta. Queste anime elette dettero così inizio a quella vita comune, che poi, passando nel nuovo Monastero di S. Domenico, costruito da Pietro Gambacorta per la figlia Chiara, poterono proseguire e restaurare in pieno. Inaugurata in questo novello cenacolo la vita austera e santa voluta dal glorioso fondatore, lo spirito di Dio incominciò ad operare meraviglie in quei cuori generosi. Maria fu rallegrata da celesti visioni e la sua tenera carità meritò di lavare le piaghe a Gesù, apparsole in sembianze di giovane piagato. Alla morte di Chiara Gambacorta, che fu la prima Priora del monastero, le successe nel governo che tenne fino alla sua beata morte, avvenuta il 22 gennaio 1431. E’ sepolta a Pisa nella chiesa del Monastero di San Domenico. Papa Pio IX il 2 agosto 1855 ha confermato il culto.
L'Ordine Domenicano la ricorda il 30 gennaio.
Autore: Franco Mariani
Una stupenda figura di medico, di sposo e di padre ...
Dunakiliti (Ungheria), 28 ottobre 1870 - Vienna, 22 gennaio 1931
Figlio di una famiglia della nobiltà ungherese, nacque a Dunakiliti nel 1870. Ancora studente di medicina all'università di Vienna sposò la contessa Maria Teresa Coreth, da cui ebbe tredici figli. Poi, nel 1902 fondò un piccolo ospedale privato a Kittsee, che qualche anno dopo trasferì a Körmend, nel castello di famiglia. Un luogo aperto anche ai più poveri, che ben presto cominciarono ad arrivare da tutto il Paese. Batthyány-Strattmann li curava gratuitamente. Come «prezzo» per la terapia e le cure in ospedale chiedeva di pregare un Padre nostro con lui. Erano così tanti i malati che costrinsero le ferrovie ungheresi ad approntare un apposito «treno-ospedale».
Batthyány-Strattmann non si occupava solo della salute fisica dei suoi pazienti. Quando li dimetteva donava loro un libretto intitolato «Apri gli occhi e vedi», con cui li invitava a ravvivare la propria fede. In occasione delle sue nozze d'argento, nel 1923, Pio XI gli conferì attraverso il nunzio apostolico Schioppa un'onorificenza per la sua opera. Eloquenti il racconto dell'arcivescovo al Papa: «Gli ungheresi considerano László Batthyány-Strattmann come un santo, e io posso assicurarle che lo è veramente».
La fede lo aiutò ad affrontare anche la difficilissima prova della perdita di un figlio di 21 anni, stroncato da un'appendicite. Chiusi gli occhi al ragazzo, Batthyány-Strattmann disse ai familiari: «Adesso andiamo in cappella a ringraziare Dio per avercelo lasciato con noi fino ad ora». Fu lo spirito con cui affrontò anche la sua malattia. Morirà a Vienna il 22 gennaio 1931.
Martirologio Romano: A Vienna in Austria, beato Ladislao Batthyány-Strattmann: padre di famiglia, testimoniando il Vangelo tanto in famiglia quanto nella società civile con la santità della vita e delle opere, visse davvero cristianamente il suo titolo e la sua dignità di medico e con grande carità si adoperò nell’assistenza dei malati, per i quali fondò degli ospedali, in cui, messa da parte ogni vanità, accoglieva soltanto poveri e indigenti.
Dicono che sia un medico molto speciale. Aggiornatissimo, all’avanguardia, valente, ma speciale. Innanzitutto perché cura gratis i poveri (ma questo anche altri, pochi per la verità, lo fanno), poi soprattutto perché oltre a curare i corpi si interessa anche dell’anima, e questo fa davvero eccezione. Quanti medici avete voi incontrato che, invece di farsi pagare in moneta sonante (o in assegno), vi chiede come compenso di recitare un “padrenostro” insieme? O da quale medico, al momento delle dimissioni dall’ospedale, avete mai ricevuto, insieme alla ricetta o alla cartella clinica, un opuscolo religioso per risvegliare la vostra fede? Questo medico “speciale” nasce nel 1870 a Dunakiliti, in Unheria, sesto figlio di una famiglia appartenente all’antica nobiltà ungherese, ma poco dopo si trasferisce con tutta la famiglia in Austria per il pericolo permanente che l’acqua alta del Danubio rappresenta. La vocazione del medico gli nasce in cuore da un evento luttuoso che lo segna dolorosamente: la morte della mamma, non ancora quarantenne, quando lui ha appena 12 anni. Davanti alla bara aperta di mamma promette a se stesso di studiare per diventare medico: “Guarirò i malati e curerò i poveri gratis”, sussurra: che non siano parole al vento o emozioni passeggere lo dimostreranno gli anni a venire. Papà però non è d’accordo, e invece di fargli studiare medicina lo manda alla facoltà di agraria, dato che gli sta progettando un futuro di amministratore dell’ingente patrimonio familiare. Non sappiamo come, certo è che la vince il ragazzino, che studia, si impegna, fatica e alla fine si laurea a trent’anni. Naturalmente in medicina. Due anni prima si è sposato con una ragazza di nobile casato, la contessa Maria Teresa Coreth e questo sarà un matrimonio felice, arricchito da 13 figli. Ora deve mettere in pratica solo la seconda parte della sua promessa, cioè curare i poveri gratuitamente, e riesce anche in questo. Comincia ad aprire un ospedale privato con 25 posti letto, nel quale chi può paga la sua parte mentre gli altri (e sono la maggioranza) vengono ammessi gratuitamente. Il dottore si specializza in chirurgia, poi ancora in oftalmologia e le cure che riesce a garantire ai suoi pazienti sono sempre più all’avanguardia. Sfonda soprattutto come oculista, diventando un noto specialista sia in patria che all’estero. Intanto, nel 1920, si trasferisce con tutta la famiglia nel castello a Kormend, in Ungheria, ricevuto in eredità da un ricchissimo zio. Ha già le idee chiare: una parte del castello sarà trasformata in ospedale specializzato in oculistica. La voce che in quel castello si curarono gratuitamente i poveri si sparge in un baleno e frotte di malati chiedono il suo aiuto, al punto che le ferrovie ungheresi devono organizzare corse speciali con treni-ospedale, appositamente attrezzati per loro. Oltre che ottimo medico, professionalmente parlando, i malati hanno imparato a conoscere anche il suo fare gentile e comunicativo e questo aumenta la loro confidenza verso di lui. Che, come già detto, si fa pagare dai poveri con un “padrenostro”, mentre a tutti regala un libretto dal significativo titolo “Apri gli occhi e guarda”, come a dire che la vista del corpo non è tutto e che ciascuno deve riaccendere la luce della propria fede. E lui dà l’esempio: prima di qualsiasi operazione invita il malato a chiedere insieme a lui la benedizione del Signore, che gli deve guidare la mano. Ad avvenuta guarigione, poi, convince i suoi malati che la guarigione non è merito suo, ma esclusivamente di Dio. Oltre a non farsi pagare, poi, ha preso l’abitudine di congedare i malati più bisognosi con una bella somma di denaro per aiutarli a riprendere il lavoro. Non stupisce dunque il fatto che in Ungheria lo si consideri un santo, anche perché come tale si comporta pure tra le pareti di casa. La giornata di tutta la famiglia inizia con la messa e termina con il rosario, i figli sono seguiti ciascuno con una raccomandazione giornaliera quotidiana, a nessuno manca il necessario, ma il superfluo nessuno sa cosa sia anche se potrebbero permetterselo. Un uomo così è preparato a tutto: anche a chiudere gli occhi al proprio figlio ventunenne e ringraziare il Signore che glielo ha concesso; anche affrontare la sua terribile malattia, con 14 mesi di sanatorio a Vienna, dove impara a “accogliere anche i tempi difficili con gratitudine”. Muore a 60 anni, il 22 gennaio 1931, e il cardinale Piffl vuole celebrare il funerale anche se malato perché, dice, “raramente ho la possibilità di seppellire un santo”. Anche la Chiesa ufficiale oggi lo riconosce come tale, perché Giovanni Paolo II°, il 23 marzo 2003 ha beatificato a Roma Laszlo Batthyany-Strrattmann, il medico dei poveri.
Autore: Gianpiero Pettiti
Cesarea di Mauritania, III secolo
Severiano e Aquila, sposi e martiri del III secolo a Cesarea di Mauritania. Furono bruciati vivi in odio alla loro fede cristiana.
Martirologio Romano: A Cesarea di Mauritania, nell’odierna Algeria, santi martiri Severiano e Aquila, coniugi, che furono bruciati nel fuoco.
I due santi martiri di Cesarea di Mauritania (Africa Settentrionale) Severiano e Aquila, coniugi cristiani, non sono da confondere con la coppia di sposi Aquila e Priscilla di Corinto, santi collaboratori di s. Paolo Apostolo, la cui celebrazione è all’8 luglio e i cui nomi sono inseriti nelle attuali “litanie degli sposi”.
La stranezza fra le due coppie di sposi, è che il nome Aquila si riferisce nella prima alla sposa e nella seconda allo sposo; segno che all’epoca romana veniva usato indifferentemente sia per uomini che per donne.
Il Martirologio Romano, al giorno 23 gennaio, data della loro celebrazione liturgica, dice: “Cesarea in Mauretania, sanctorum martyrum Severiani et Aquilæ, coniugum, qui igne combusti sunt”.
Praticamente solo un rigo, che conferma l’esistenza dei due coniugi a Cesarea di Mauritania nel III secolo e specifica che subirono il martirio venendo bruciati vivi; non aggiunge altro, quindi non si sa la data del martirio e chi fossero in realtà.
Certamente appartengono a quella lunga schiera di martiri per la fede, che testimoniarono il cristianesimo, versando il loro sangue in ogni angolo dell’immenso impero romano, torturati e uccisi con ogni specie di supplizio, dall’essere divorati dalle bestie feroci, all’essere bruciati vivi legati a dei pali.
Altre piccole notizie, come l’identificazione di Severiano quale generoso benefattore della comunità di Cesarea di Mauritania, oppure che i coniugi avessero un figlio di nome Floro, notizie apparse in antichi Martirologi come quelli di Beda e Usuardo, non sono verificabili e quindi prive di fondamento.
I due nomi di Severiano ed Aquila, sono stati portati da altri santi martiri dei primi secoli, ben cinque per Severiano e cinque per Aquila (tutti uomini).
Autore: Antonio Borrelli
Interessantissima questa figura di moglie che realizza la sua santità pregando per la salvezza dell'anima del marito... E' la prima volta che trovo commenti di questo tipo "Ma il culto popolare che la circonda subito dopo morta è ispirato soprattutto al suo modo di vivere il matrimonio, con quel marito. Un culto spontaneo, senza processi canonici, che sarà poi ratificato da papa Gregorio XVI nel 1845"; più spesso in quell'epoca si trovano commenti esattamente opposti del tipo "malgrado il matrimonio scalò le vette della santità"
Data in sposa appena dodicenne al signore di Bene Vagienna, nel Cuneese, madre un anno dopo, la beata Paola Gambara Costa continuò a vivere le virtù cristiane in un ambiente dissoluto. Il marito per questo la angheriò e tra le crudeltà che le fece subire ci fu anche la convivenza con la sua amante. Paola era nata nel 1463 in una nobile famiglia di Verola Alghise (oggi Verolanuova), nel Bresciano, dove era ammirata per la devozione e la bellezza. Dopo le principesche nozze (gli sposi furono ricevuti a Torino dal Duca di Savoia), iniziò il calvario, durante il quale ebbe un atteggiamento caritatevole verso chi la maltrattava (a Verolanuova c'è il detto «è stata provata come la beata Paola»). Fu sotto la direzione spirituale del beato Angelo di Chivasso e divenne terziaria francescana, spendendosi per i poveri. Morì nel 1515 e il suo culto è stato confermato nel 1845. Nelle immagini: la tela che ricorda il «miracolo delle rose»; si narra che, mentre dava pane ai poveri, il marito la scoprì, ma il cibo si trasformò in fiori. (Avvenire)
Etimologia: Paola = piccola di statura, dal latino
Martirologio Romano: A Binaco vicino a Milano, beata Paola Gambara Costa, vedova, che, ascritta al Terz’Ordine di San Francesco, sopportò con tale pazienza il marito violento da indurlo a conversione ed esercitò sempre in modo egregio la carità verso i poveri.
Figlia dei nobili Giampaolo Gambara e Caterina Bevilacqua, nacque a Brescia il 3 marzo 1463. Ammiratissima nell’adolescenza per la sua bellezza, ma soprattutto per le virtù cristiane da lei vissute, nonostante la sua inclinazione ad una vita di solitudine e preghiera, i genitori la diedero in sposa al conte Ludovico Costa di Bene Vagienna (Cuneo); un matrimonio fastoso, un ingresso in Piemonte che più solenne non avrebbe potuto essere: li ha accolti in Torino personalmente il capo dello Stato, il giovanissimo Carlo I duca di Savoia. Hanno combinato queste nozze i suoi nobili genitori, Giampaolo Gambara e Caterina Bevilacqua, secondo l’uso del tempo. E probabilmente forzando un po’ la sua volontà: Paola, infatti – come dicono i biografi –, conduceva una vita riservata e austera, tanto da far supporre un suo ingresso in monastero.
Invece, le nozze, la nuova casa, la vita brillante. Qualcosa di molto diverso dal modo di vivere della sua famiglia. E va a finire che il nuovo modo di vivere le piace, e lo adotta anche lei. «Dovendo partecipare alla vita di società, ne assume per qualche tempo le usanze, non sempre lodevoli e conformi ai princìpi cristiani» (G.D. Gordini).
Dopo qualche tempo, tuttavia, c’è l’incontro che la orienta in una nuova direzione: abbandonate le “usanze” dei primi tempi da sposa, non si limita a riprendere il comportamento riservato e pio della sua adolescenza, ma fa molto di più. L’autore di questa trasformazione è un francescano piemontese, Angelo Carletti da Chivasso, figura eminente nel suo Ordine, predicatore ricercato in tutta Italia. Lei l’ha ascoltato predicare in Piemonte (dove ha fondato i monasteri di Saluzzo, Mondovì e Pinerolo) e si è poi affidata a lui per un orientamento.
I consigli del francescano la pilotano non già verso una “fuga dal mondo” in cerca di penitenze espiatorie; al contrario: padre Angelo la aiuta a restare in quel mondo, tra la gente del suo ceto, per dimostrare che si può vivere anche lì in coerenza con la fede. Per dare un esempio. Ecco infatti l’unico gesto pubblico di Paola, l’unico segno del suo ravvedimento: è entrata in un sodalizio laicale, il Terz’Ordine francescano. Per il resto, è sempre la contessa Costa, con in più un figlio, e con la forza tranquilla di resistere, di continuare così anche di fronte all’infedeltà del marito.
Anzi, un giorno riceve da lui la peggiore delle offese: Ludovico non solo ha un’amante, ma un giorno gliela fa trovare in casa, installata lì. Lei non esplode e non si rassegna. Reagisce, ma non da nemica o da vittima: reagisce da moglie preoccupata di salvare suo marito da sé stesso col proprio comportamento. E ci riesce: Ludovico abbandona a sua voltal e “usanze non sempre lodevoli”, perché finalmente ha capito che donna e che moglie è Paola. Gli accade poi di ammalarsi gravemente: e lei, oltre a fargli da infermiera, si rivolge ancora a padre Angelo da Chivasso: ma con la preghiera, perché il francescano è morto nel convento del suo Ordine a Cuneo. Ludovico guarisce e subito va in pellegrinaggio alla sua tomba; sulla malattia e sulla guarigione scrive una testimonianza, che sarà poi inserita negli atti per la beatificazione di padre Angelo.
Paola, rimasta vedova col figlio, si dedica ad attività benefiche come spesso accade. Ma il culto popolare che la circonda subito dopo morta è ispirato soprattutto al suo modo di vivere il matrimonio, con quel marito. Un culto spontaneo, senza processi canonici, che sarà poi ratificato da papa Gregorio XVI nel 1845. Il corpo è custodito nel convento francescano di Bene Vagienna.
Autore: Domenico Agasso
m. Pratulin (Polonia), 24 gennaio 1874
Nel villaggio di Pratulin, nella diocesi di Siedlce, in Polonia, i Beati Wincenty Lewoniuk e dodici compagni martiri, che, non turbati né da minacce né da promesse, non vollero allontanarsi dalla Chiesa Cattolica, ed infine, rifiutando di consegnare le chiavi della loro parrocchia, furono massacrati inermi il 24 gennaio 1874. Giovanni Paolo II li beatificò il 6 ottobre 1996 a Roma.
Martirologio Romano: Nel villaggio di Pratulin nei pressi di Siedlce in Polonia, beati Vincenzo Lewoniuk e dodici compagni, martiri: irremovibili di fronte a minacce e lusinghe, non vollero separarsi dalla Chiesa cattolica e inermi furono uccisi o feriti a morte per essersi rifiutati di consegnare le chiavi della loro parrocchia.
I tredici beati martiri polacchi commemorati in data odierna dal Martyrologium Romanum erano fedeli laici cattolici della Chiesa cosiddetta uniate, nata nel 1596 dall’Unione di Brest. Questa unione porto all’unita della Chiesa ortodossa in Polonia con la Chiesa Cattolica ed il Romano Pontefice. Wincenty Lewoniuk ed i suoi compagni erano semplici contadini come tanti altri, divenuti inaspettatamente famosi a motivo della fede coraggiosa dimostrata durante la persecuzione della Chiesa Cattolica da parte della Russia, particolarmente sanguinosa e ben organizzata, al tempo della spartizione della Polonia. Gli zar russi iniziarono gradualmente l’abolizione del cattolicesimo proprio dalla distruzione della Chiesa uniate. Nel 1794 Caterina II abolì la Chiesa uniate ucraina. Nel 1839 poi fu ufficialmente abolita dallo zar Nicola I la Chiesa uniate nella Bielorussia e nella Lituania. Questo fu l’attuazione del vecchio principio “cuius regio eius religio”, in base al quale i sudditi dovevano professare la medesima religione del loro sovrano. La Russia temette che la Chiesa Cattolica si rivelasse di ostacolo alla russificazione ed alla degradazione dell’uomo così significativi per il suo governo.
Già nella seconda meta del XIX secolo, sul territorio occupato dalla Russia, la Chiesa uniate rimaneva solo più nella diocesi polacca di Chelm. L’amministrazione dello zar progettò l’abolizione di questa Chiesa ed Alessandro II diede l’autorizzazione a procedere. Nel gennaio 1874 avrebbe quindi dovuto entrare in vigore la liturgia ortodossa nelle chiese uniate. L’accettazione di essa da parte degli uniati era stata giudicata dal governo russo come l’ingresso della parrocchia a far parte dell’ortodossia. Il governo aveva infatti rimosso il vescovo ed i sacerdoti che non avevano accettato le riforme finalizzate alla rottura dell’unità della Chiesa universale. Per la loro fedeltà essi pagarono con la deportazione in Siberia, l’incarcerazione o la rimozione dalla parrocchia. Molti laici, privati dei loro parroci, scelsero di difendere da soli la loro chiesa, la liturgia e la fedeltà al Santo Padre, spesso anche a costo della propria vita.
Il 24 gennaio 1874 arrivarono a Pratulin le truppe zariste e gli uniati erano ben consci che la difesa della chiesa avrebbe potuto costare loro la vita. Nonostante ciò andarono in chiesa pronti a tutto per difendere la loro fede. Congedatisi dalle loro famiglie, si vestirono in modo festivo come di consuetudine per occuparsi delle cose sacre.
Non riuscendo a persuadere gli uniati a lasciare la chiesa né con le minacce, né con le lusinghe delle grazie dello zar, il comandante ordinò di sparare sulla gente. Avendo udito che l’esercito aveva ricevuto l’ordine di uccidere coloro che avessero opposto resistenza, gli uniati si inginocchiarono nel cimitero presso la chiesa e con il canto si prepararono a spargere il loro sangue per la fede. Morirono ricolmi di pace con preghiere sulle labbra, senza rivoltarsi contro i persecutori in quanto, come dicevano, “dolce è la morte per la fede”.
I tredici martiri di Pratulin erano tutti uomini di età compresa tra 19 e 50 anni, dei quali però non sono state tramandate molte notizie sulla loro vita personale. Alla luce delle testimonianze paiono però uomini caratterizzati da una fede matura. La difesa della chiesa circondata dalle truppe armate non fu dunque un effetto dello zelo momentaneo o della temerarietà irresponsabile, ma la logica conseguenza della loro profonda fede. Essi credettero che il dare la vita per Cristo non significhi perderla, bensì conquistarne la pienezza. I martiri di Pratulin per molti aspetti ricordano i primi martiri del cristianesimo, quando molti semplici fedeli vennero uccisi per il solo fatto di confessare coraggiosamente la loro fede in Gesù Cristo.
I tredici martiri furono sepolti dai soldati russi senza rispetto, senza la partecipazione neppure dei più stretti familiari e senza lasciare alcun segno sulla loro tomba. I parrocchiani di Pratulin fortunatamente non dimenticarono i loro fratelli martiri ed a partire dal 1918, quando la Polonia riconquistò la libertà, la tomba cominciò ad essere oggetto di venerazione. Le spoglie dei martiri vennero poi infine traslate nella chiesa parrocchiale il 18 maggio 1990.
Il caso verificatosi a Pratulin non fu in realtà un atto sporadico. Particolarmente dal gennaio 1874 ogni parrocchia uniate in Polonia scrisse la sua storia di martirio. Lo zar abolì ufficialmente la diocesi uniate di Chelm nel 1875 e gli uniati, contro la loro volontà, vennero unificati alla Chiesa Ortodossa Russa. Gli uniati però non accettarono ciò e per la loro fedeltà alla Chiesa cattolica pagarono molte volte con la morte o con varie pene. Rimasti senza pastori sotto il potere russo, talvolta gli uniati ricevettero l’aiuto pastorale dei sacerdoti cattolici delle zone polacche rimaste sotto il potere austriaco e tedesco. La grande fede degli uniati e l’aiuto solidale ricevuto dalla Chiesa Cattolica permisero di superare le persecuzioni e di giungere finalmente alla libertà religiosa, ufficializzata il 30 aprile 1905 dal santo zar Nicola II. Proprio in tale occasione molti uniati in Podlachia e nella diocesi di Lublino si aggregarono alle parrocchie romano-cattoliche, essendo ormai smantellate le strutture della Chiesa uniate.
Essendo i martiri di Pratulin quelli relativamente ai quali si sono conservate un maggior numero di testimonianze, nonché la tomba, il vescovo della diocesi di Podlachia Enrico Przezdziecki scelse proprio essi nel 1938 come candidati alla beatificazione in rappresentanza di tutti quei martiri che diedero la vita per la fede e per l’unità della Chiesa. Al loro martirio resero omaggio quasi tutti i papi a partire dal beato Pio IX, ma fu con il loro connazionale Giovanni Paolo II che si giunse alla beatificazione il 6 ottobre 1996 in San Pietro. Egli giudicò i martiri di Podlachia quale grande capitolo della storia della Polonia e rivelò perciò di portare la loro memoria nel suo cuore.
Questi beati potrebbero essere anche considerati oggi quali patroni dell’apostolato dei laici, esempi pratici di impegno nella vita della Chiesa e di responsabilità per la costruzione di una società fondata sulla legge di Dio.
Si riportano di seguito alcune brevi informazioni su ciascuno dei tredici martiri di Pratulin.
Vincenzo (Wincenty) Lewoniuk, nato a Krzyczew (Polonia) nel 1849, sposato, di anni 25. Uomo pio e di buona reputazione. Fu il primo a dare la vita per la difesa della chiesa e ciò gli meritò di essere posto a capo del presente gruppo.
Daniele (Daniel) Karmasz, nato a Przedmiecie Pratulin (Polonia) il 22 dicembre 1826, sposato, di 48 anni. Dalla testimonianza di suo figlio sappiamo che era un uomo di sentimenti religiosi e timorato di Dio. Presidente della confraternita parrocchiale, durante la difesa della chiesa si mise a capo fila della gente portando una croce che ancora oggi viene conservata a Pratulin.
Luca (Lukasz) Bojko, nato a Zaczopki (Polonia) il 29 ottobre 1852, celibe, di 22 anni. Suo fratello testimoniò che fu un uomo onesto, religioso e di buona reputazione. Durante la difesa della chiesa suonava le campane.
Costantino (Konstanty) Bojko, nato a Derlo (Polonia) il 25 agosto 1825, sposato, di 45 anni. Uomo buono e pio. Ferito gravemente durante la difesa della chiesa, morì a casa il giorno successivo, lasciando la moglie Irene e sette figli.
Costantino (Konstanty) Lukaszuk, nato a Zaczopki (Polonia) nel 1829, sposato, di 45 anni. Fu ferito nella difesa della chiesa e ciò comportò per lui la morte.
Aniceto (Anicet) Hryciuk, nato a Zaczopki (Polonia) nel 1855, celibe, di 19 anni. Giovane buono, religioso ed educato all’amore verso la chiesa. Uscendo da casa con il cibo per i difensori della chiesa a Pratulin, disse a sua madre: “Forse anch’io sarò degno di dare la vita per la fede”. Fu infatti ucciso presso la chiesa il 24 gennaio nelle ore pomeridiane.
Filippo (Filip) Geryluk, nato a Zaczopki (Polonia) il 26 novembre 1830, sposato, di 44 anni. Dalla testimonianza di suo nipote risultò essere un buon padre di famiglia, pio ed onesto. Presso la chiesa incoraggiò gli altri alla perseveranza e lui stesso diede la vita per la fede.
Onofrio (Onufry) Wasyluk, nato a Zaczopki (Polonia) nel 1853, di 21 anni. Buon cattolico ed uomo giusto, stimato da tutti.
Bartolomeo (Bartlomiej) Osypiuk, nato a Bohukaly (Polonia) il 3 settembre 1843, di 30 anni. Sposato con Natalia, aveva due figli. Rispettato da tutti nel villaggio per la sua onestà, avvedutezza e religiosità. Gravemente ferito, fu trasportato a casa, ove morì pregando per i persecutori.
Ignazio (Ignacy) Franczuk, nato a Derlo (Polonia) nel 1824, di 50 anni. Sposato con Elena da cui ebbe sette figli. Da suo figlio sappiamo che educò i figli nel timore di Dio. La fedeltà a Dio fu per lui il valore più importante. Preparandosi ad andare a Pratulin per difendere la chiesa, indossò un abito pulito affermando che tutto avrebbe potuto succedere, anche che egli non fosse più tornato. Dopo la morte di Daniel Karmasz prese la sua croce e si mise in prima fila con i difensori.
Giovanni (Jan) Andrzejuk, nato a Drelów (Polonia) il 9 aprile 1848, di 26 anni. Sposato con Marina da cui ebbe due figli. Stimato da tutti quale uomo buono e prudente. Mentre si avviò a Pratulin per difendere la chiesa, si congedò da tutti presupponendo che potesse essere l’ultima volta. Gravemente ferito fu trasportato a casa, dove morì durante la notte.
Massimo (Maksym) Hawryluk, nato a Bohukaly (Polonia) il 2 maggio 1840, di 34 anni. Sposato con Domenica, stimato dalla gente quale uomo buono e onesto. Gravemente ferito presso la chiesa, morì il giorno seguante.
Michele (Michal) Wawryszuk, nato a Derlo (Polonia) nel 1853, celibe, di 21 anni. Lavorava nella tenuta di Paolo Pikula a Derlo. Godeva buona fama. Gravemente ferito presso la chiesa, morì il giorno dopo a Derlo.
Autore: Fabio Arduino
Santa Dwin non si sposò, ma era figlia di un santo che conosceremo meglio il 6 aprile (San Brychan) che ebbe 24 figli e figlie tutti proclamati santi! Fu promessa sposa e fu resa famosa anche dalla sua preghiera a Dio che "che tutti gli innamorati con l’aiuto di Dio riuscissero a trovare la felicità attraverso il compimento del loro amore o fossero piuttosto guariti dalle loro passioni", mi perdonerete quindi questa "intrusione" tra i santi sposati!
m. Isola di Llanddwyn, 460 circa
La santa oggi in questione è principalmente nota con il nome di Dwynwen o la sua abbreviazione in Dwyn, come attesta l’autorevole Biblioteca Sanctorum, ma talvolta è citata come Donwen, Donwenna o Dunwen.
Santa Dwyn visse nel V secolo, figlia di San Brychan di Brecknock (6 aprile), prolifico sovrano gallese che generò ben 24 figli e figlie, tutti venerati come santi ed assai celebri in particolare nel mondo celtico. L’iconografia è solita infatti rappresentarlo intento a tenere in braccio tutti i suoi bambini con l’ausilio di un grande telo. Della numerosa prole si segnalano in particolare il primogenito San Canog (7 ottobre), morto martire, il secondogenito San Cledwyn (1° novembre), che ereditò dunque il trono, e la figlia Santa Gladys, andata in sposa a San Gwynllyw.
Ma torniamo ora a Dwynwen, un’altra figlia dell’augusto genitore. Bella e virtuosa ragazza, si innamorò pazzamente di un principe gallese, Maelon Dafodrill, ma l’idea di matrimonio tramontò. Diverse leggende hanno tentato di trovare una spiegazione a ciò ed una di esse potrebbe essere che Brychan avesse già promesso la figlia in moglie ad un altro principe.
La santa capì però che la sua chiamata era a dedicare a Dio la sua esistenza intraprendendo la vita religiosa. Tentò allora di separarsi da Maelon, ma questi reagì cambiando drasticamente atteggiamento nei suoi confronti e divenendo insopportabile. Vedendo la sua disperazione, Dwynwen si rifugio nel bosco elevando a Dio ferventi preghiere perché la aiutasse e ponesse fine alle sue miserie. Si addormentò ed al suo risveglio le era stata somministrata una bevanda dolce che la privò immediatamente delle attenzioni di Maelon e della tristezza del suo cuore. La medesima bevanda fu data a Maelon, ma su di lui ebbe l’effetto di trasformarlo in una statua di ghiaccio. Dwynwen pregò allora nuovamente perché fossero esaudite tre sue richieste: che Maelon fosse liberato dal ghiaccio, che lei non avesse mai più desiderato sposarsi ed infine che tutti gli innamorati con l’aiuto di Dio riuscissero a trovare la felicità attraverso il compimento del loro amore o fossero piuttosto guariti dalle loro passioni. Una delle massime predilette dalla santa fu: “Nulla conquista i cuori quanto l’allegria”.
Dio esaudì tutti i suoi sogni ed ella non esitò a votare a Lui l’intera sua esistenza. Fondò allora un convento sull’odierna isola di Llanddwyn, proprio di fronte all’isola di Anglesey (Yns Mon). Vi morì nell’anno 460 circa.
Qui una fontana di acqua fresca chiamata Ffynnon Dwynwen, venne considerata una sorgente santa e divenne ben presto meta di pellegrinaggi. Con il tempo la santa fu anche invocata per la guarigione dei malati e degli animali in pericolo, tradizione sopravvissuta sino ai giorni nostri.
Le rovine della cappella di Llanddwyn, una chiesa Tudor del XVI secolo edificata sul sito di un antico priorato, sono ancora visibili odiernamente. Il nome di Santa Dwynwen è inoltre richiamato in quello della città di Porthddwyn ed una chiesa è ancora a lei dedicata nella penisola britannica della Cornovaglia.
Santa Dwyn (Dwynwen) è festeggiata al 25 gennaio.
Autore: Fabio Arduino
Spinetta Marengo, Alessandria, 25 settembre 1855 - Alessandria, 25 gennaio 1944
Fondatrice delle Piccole Suore della Divina Provvidenza. L'Opera cominciò ad avere case in diversi luoghi del Piemonte, sviluppandosi presto anche nelle regioni del Veneto, della Lombardia, della Liguria, delle Puglie e della Lucania. Dal 13 giugno 1900 l'Istituto si estese in Brasile e dal 1927, dietro sollecitazione del Santo Don Luigi Orione, fondò case anche in Argentina. Senza risparmiarsi, Teresa animava e incoraggiava le consorelle con la sua sollecita e carismatica presenza nelle comunità. Per ben sei volte attraversò l'oceano per raggiungere l'America Latina, dove dietro sua sollecitazione fiorirono numerose fondazioni con asili, orfanotrofi, scuole, ospedali e ricoveri per anziane. Il sesto viaggio lo fece nel 1928, all'età di 73 anni. L'8 giugno 1942, la Santa Sede concedeva l'Approvazione Apostolica alla Congregazione delle Piccole Suore della Divina Provvidenza. La Beata Teresa Grillo si spense ad Alessandria il 25 gennaio 1944 all'età di 88 anni.
Martirologio Romano: Ad Alessandria, beata Maria Antonia (Teresa) Grillo, religiosa, che, rimasta vedova, provvide misericordiosa alle necessità dei poveri e, venduta ogni sua proprietà, istituì la Congregazione delle Piccole Suore della Divina Provvidenza.
Teresa Grillo nacque a Spinetta Marengo, in provincia di Alessandria, il 25 settembre 1855. Quinta e ultima figlia di Giuseppe, primario dell'Ospedale Civile di Alessandria, e di Maria Antonietta Parvopassu, discendente da antica e illustre famiglia alessandrina, fu battezzata il giomo seguente nella chiesa parrocchiale di Spinetta, ricevendo anche il nome di Maddalena.
Dotata di un temperamento incline alla carità, alimentato anche da un clima familiare ricco di spirito cristiano, il 1° ottobre 1867 ricevette la cresima nella cattedrale di Alessandria e cinque anni dopo, mentre era in collegio, la prima comunione.
Dopo le scuole elementari, frequentate a Torino, dove la madre si era trasferita per seguire gli studi universitari del figlio Francesco, nel 1867, a seguito della morte del padre, fu collocata come alunna interna nel collegio delle Dame Inglesi a Lodi, dove si diplomò all'età di 18 anni.
Lasciato il collegio, tornò ad Alessandria, dove, sempre sotto la guida materna, iniziò a frequentare le famiglie aristocratiche della città.
Fu proprio in questo ambiente che conobbe il futuro marito, il colto e brillante capitano dei Bersaglieri, Giovanni Michel.
Celebrate le nozze il 2 agosto 1877, con il marito si trasferì prima a Caserta, poi ad Acireale, a Catania, a Portici ed infine a Napoli.
Con la morte del marito, stroncato da un'insolazione durante una sfilata a Napoli, il 13 giugno 1891, Teresa sprofondò in una cupa angoscia che rasentò la disperazione.
La ripresa quasi improvvisa, dovuta anche alla lettura della vita di San Giuseppe Cottolengo e all'aiuto del cugino sacerdote, Mons. Prelli, sfociò nella scelta di abbracciare la causa dei poveri e dei bisognosi.
Teresa cominciò così a spalancare le porte del proprio palazzo ai fanciulli poveri e alle persone abbandonate e bisognose.
Alla fine del 1893, visto che “i poveri aumentano a più non posso e si vorrebbe poter allargare le braccia per accoglierne tanti sotto le ali della Divina Provvidenza”, vendette palazzo Michel e acquistò un vecchio edificio di via Faà di Bruno. Qui diede inizio ai lavori di ristrutturazione e ampliamento, costruendo un piano superiore e comprando alcune casupole vicine. Sorse, così, il “Piccolo Ricovero della Divina Provvidenza”.
L'opera avviata da Teresa non fu certo priva di avversità che le vennero non solo dalle autorità ma soprattutto dagli amici e familiari. Proprio nell'incomprensione fu evidente la solidarietà e l'affetto dei poveri, delle persone generose e delle collaboratrici. Dietro sollecitazione dell'Autorità Ecclesiastica, l'8 gennaio 1899, vestendo l'abito religioso nella cappellina del Piccolo Ricovero, Teresa Grillo, con otto tra le sue collaboratrici, diede vita alla Congregazione delle Piccole Suore della Divina Provvidenza.
Nei restanti 45 anni, la sua prioritaria preoccupazione fu quella di diffondere e consolidare l'Istituto. Subito dopo la fondazione, infatti, l'Opera cominciò ad avere case in diversi luoghi del Piemonte, sviluppandosi presto anche nelle regioni del Veneto, della Lombardia, della Liguria, delle Puglie e della Lucania. Dal 13 giugno 1900 l'Istituto si estese in Brasile e dal 1927, dietro sollecitazione del Santo Don Luigi Orione, fondò case anche in Argentina.
Senza risparmiarsi, Teresa animava e incoraggiava le consorelle con la sua sollecita e carismatica presenza nelle comunità. Per ben sei volte attraversò l'oceano per raggiungere l'America Latina, dove dietro sua sollecitazione fiorirono numerose fondazioni con asili, orfanotrofi, scuole, ospedali e ricoveri per anziane. Il sesto viaggio lo fece nel 1928, all'età di 73 anni. L'8 giugno 1942, la Santa Sede concedeva l'Approvazione Apostolica alla Congregazione delle Piccole Suore della Divina Provvidenza. La Beata Teresa Grillo si spense ad Alessandria il 25 gennaio 1944 all'età di 88 anni. Il suo istituto contava 25 case in Italia, 19 in Brasile e 7 in Argentina. Con il Processo Informativo, nel 1953 fu avviata la Causa di Canonizzazione. Il 6 luglio 1985 il Santo Padre Giovanni Paolo 11, dichiarandola Venerabile, ne ha decretato l'eroicità delle virtù.
Lo spirito della Beata Teresa Grillo verso gli indigenti permane particolarmente nell'opera delle sue consorelle, a cui soleva ripetere: “Continuerò ad invocarvi l'abbondanza dello Spirito che deve distinguere la Piccola Suora della Divina Provvidenza: spirito di confidenza veramente eroica in questa mirabile emanazione della Divina Bontà, poiché noi dobbiamo essere totalmente e in ogni ora alla mercé del Suo provvido aiuto”.
Sua Santità Giovanni Paolo II, in occasione dell'ostensione della Sindone, l'ha beatificata a Torino il 24 maggio 1998.
La sua memoria è 25 gennaio.
XIII secolo
Moglie del famoso Giacomo I°, Re e confondatore con San Pietro Nolasco dell’Ordine Mercedario, la Beata Eleonora d’Aragona, per prima indossò l’abito o lo scapolare della Mercede che portò sempre in pubblico. Fu esemplare per la professione religiosa e colma di meriti morì a Barcellona.
L’Ordine la festeggia il 25 gennaio.
Roma, 5 maggio 347 - Betlemme, 26 gennaio 406
Di ricchissima famiglia dell'alta aristocrazia romana, Paola nasce durante il regno di Costantino II. A quindici anni sposa Tossozio, un nobile del suo rango. Il suo è un matrimonio felice il cui frutto sono quattro figlie, Blesilla, Paolina, Eustochio e Ruffina, e un figlio, Tossozio. Ma a 32 anni Paola rimane vedova. Decide allora di aprire la casa accogliendo incontri, riunioni di preghiera e di approfondimento della dottrina cristiana, iniziative per i poveri. Nel 382 invita agli incontri il dalmata Girolamo, giunto a Roma insieme a due vescovi d'Oriente. Nel 384 e Girolamo riparte verso la Terrasanta per dedicarsi all'opera di traduzione in latino delle scritture. L'anno successivo parte verso l'Oriente anche Paola, accompagnata dalla figlia Eustochio, mentre Paolina, a Roma, si occuperà di Ruffina e Tossozio. Spende le sue ricchezze per creare una casa destinata ai pellegrini, e due monasteri, uno maschile e uno femminile. Paola prende dimora in quello femminile, nel quale si costituisce una comunità sotto la sua guida. Morirà qui a 59 anni. (Avvenire)
Etimologia: Paola = piccola di statura, dal latino
Martirologio Romano: A Betlemme di Giudea, santa Paola, vedova: di nobilissima famiglia senatoria, rinunciò al mondo e, distribuite le sue sostanze ai poveri, insieme alla beata vergine Eustochio, sua figlia, si ritirò presso il presepe del Signore.
Appartiene a una ricchissima famiglia “senatoria”, all’alta aristocrazia romana. Nata durante il lungo regno di Costantino II, a quindici anni le hanno fatto sposare Tossozio, un nobile del suo rango. Il suo è un matrimonio felice, perché arrivano via via quattro figlie (Blesilla, Paolina, Eustochio e Ruffina), e poi un maschio che viene chiamato Tossozio, come il padre. Ma è anche un matrimonio breve, troppo breve: a 32 anni Paola è, infatti, già vedova.
Continua a dedicarsi alla famiglia, ma anche a impegni religiosi e caritativi. Il suo palazzo accoglie incontri, riunioni di preghiera e di approfondimento della dottrina cristiana, iniziative per i poveri. Però non è un club di dame benefiche: ha piuttosto qualche connotato monastico, e acquista vivacità quando Paola invita agli incontri il dalmata Girolamo, giunto nel 382 a Roma insieme a due vescovi d’Oriente. In gioventù egli ha studiato a Roma; è stato poi in Germania e ad Aquileia, e per alcuni anni infine è vissuto in Oriente, asceta e studioso insieme. A Roma diventa collaboratore del papa Damaso. È un divulgatore appassionato degli ideali ascetici, ha una preparazione culturale di raro spessore, e di certo non lo nasconde. Così nel clero e nell’aristocrazia si procura amici e nemici ugualmente accesi. Il suo ascendente è forte specialmente nella cerchia di Paola, alla quale comunica la sua passione per le Sacre Scritture. E nel 384 la conforta per un nuovo dolore che l’ha colpita: è morta Blesilla, la sua figlia maggiore.
Nel dicembre dello stesso anno muore il papa Damaso, e Girolamo riparte verso la Terra santa per dedicarsi all’opera che stava tanto a cuore a quel Pontefice, e che ora impegnerà lui fino alla morte: dare alla Chiesa le Sacre Scritture in una corretta e completa versione in lingua latina.
L’anno successivo parte verso l’Oriente anche Paola, accompagnata dalla figlia Eustochio, mentre Paolina, a Roma, si occuperà di Ruffina e Tossozio. (e in Roma si riaccendono vecchie calunnie su un suo presunto rapporto amoroso con Girolamo). Paola percorre dapprima l’Egitto, nei luoghi dove i Padri del deserto hanno voluto ritirarsi, «soli al mondo con Dio». Poi ritorna con la figlia in Palestina, a Betlemme: e qui si ferma per sempre. Spende le sue ricchezze per creare una casa destinata ai pellegrini, e due monasteri, uno maschile e uno femminile. Nel primo lavorerà Girolamo fino alla morte (nel 419/420). Paola prende dimora in quello femminile, nel quale si costituisce una comunità sotto la sua guida. Fra queste mura, «Paola era in grado di volare più in alto di tutte per le sue eccezionali doti» (Palladio, Storia lausiaca).
E qui Paola muore a 59 anni, affidando le cinquanta monache alla figlia Eustochio. Qui rimarrà per sempre sepolta: «In Betlemme di Giuda», come dice di lei il Martirologio romano, dove «con la beata vergine Eustochio sua figlia si rifugiò al presepe del Signore».
Autore: Domenico Agasso Fonte: Famiglia Cristiana
V secolo
La storia di questa famiglia di santi, festeggiata al 26 gennaio, inizia a Costantinopoli nel V secolo. Csenofonte e Maria, nonostante la loro ricchezza e la loro posizione sociale, si distinguevano per la loro semplicità d'animo e la bontà del cuore. Desiderosi di dare ai loro figli Arcadio e Giovanni una più completa formazione, li mandarono a Beirut in Fenicia. La Provvidenza volle che, andata distrutta la nave su cui erano in viaggio, i due fratelli furono miracolosamente salvati dalle onde facendoli giungere a riva in luoghi diversi. Intrapresero dunque la vita monastica ed i genitori, non avendo più notizie, credettero fossero morti. Ormai anziani, Csenofonte e Maria si recarono pellegrini ai luoghi santi di Gerusalemme, ove reincontrarono i loro figli. Grati al Signore per aver riunito la loro famiglia, anch'essi scelsero di passare il resto dei loro giorni nel silenzio e nel digiuno dell'ascesi.
Martirologio Romano: A Gerusalemme, santi Senofonte e Maria e i loro figli Giovanni e Arcadio, che, dopo aver rinunciato alla dignità senatoria e a ingenti beni, si tramanda che con pari ardore d’animo abbiano abbracciato nella Città Santa la vita monastica.
Saint-Crespin-sur-Moine, Francia, 18 maggio 1723 – Angers, Francia, 26 gennaio 1794
Marie de la Dive nacque a Saint-Crespin-sur-Moine, nel dipartimento francese di Maine-et-Loire, il 18 maggio 1723. Nobildonna, vedova Du Verdier de la Sorinière, fu condannata alla ghigliottina per la sua fedeltà alla Chiesa. La sentenza fu eseguita il 26 gennaio 1794 presso Angers.
Papa Giovanni Paolo II ha beatificato Marie de la Dive il 19 febbraio 1984 insieme con un gruppo complessivo di 99 martiri della diocesi di Angers, capeggiati dal sacerdote Guglielmo Repin, vittime della medesima persecuzione.
Martirologio Romano: Ad Angers in Francia, beata Maria de la Dive, martire, che, rimasta vedova, durante la rivoluzione francese fu ghigliottinata per la sua fedeltà alla Chiesa.
28 gennaio
Ravenna, 1471 – 28 gennaio 1530
Etimologia: Gentile = cortese, nobile di comportamento, dal latino
Le notizie sulla beata Gentile Giusti e della sua maestra spirituale e parente, Margherita Molli, ci sono pervenute stampate nell’edizione del 1535, di una “Vita di due Beatissime Donne, Margarita et Gentile”, compilata su notizie in parte ricevute dalla stessa Gentile Giusti, per quanto riguardava Margherita Molli e dal sacerdote Girolamo Maluselli per quanto riguardava Gentile, dal Canonico Regolare Lateranense (Agostiniano) padre Serafino Acuti de’ Porti da Fermo (1496-1540), quindi loro contemporaneo.
A completezza di queste notizie si aggiunge, che di questa edizione non esiste oggi nessun esemplare, ma solo una copia manoscritta di detta stampa, nell’Archivio Arcipretale di S. Apollinare in Russi (Ravenna). Successivi studi agiografici, si rifanno a quest’iniziale fonte editoriale.
Gentile Giusti, figlia di Tommaso Giusti di Verona e di Domenica Orioli di Russi, nacque a Ravenna nel 1471; già negli anni della fanciullezza frequentò la casa della sua parente, probabilmente cugina, la beata Margherita Molli (1442-1505) di Russi, laica penitente, mistica, cieca, rimanendo ammirata dalle sue straordinarie virtù e dalla sua fede, diventandone una discepola.
Verso il 1496 si sposò con un sarto veneziano Giacomo, soprannominato Pianella; dalla loro unione nacquero due figli, uno morì a sei anni, l’altro, di nome Leone, divenne sacerdote e morì due anni prima della madre nel 1528.
Il matrimonio non ebbe un esito felice, a causa dei maltrattamenti ricevuti dall’irascibile e vizioso marito, che giunse perfino a denunziarla come strega, perché si dedicava troppo alla preghiera.
Ma il Vicario del vescovo, recatosi con lui alla sua casa, poté constatare l’infondatezza delle accuse, con un approfondito colloquio con Gentile; il marito mosso dalla disperazione se ne andò a Padova, abbandonandola in quel tempo di carestia, in grande povertà.
Qui cominciarono a vedersi i segni della Provvidenza, che prodigiosamente non le faceva mancare il sostentamento necessario; dopo molti anni, il marito ritornò a casa e costatato la divina assistenza verso di lei, cambiò opinione nei suoi riguardi, pentendosi anche per le preghiere della stessa moglie e morì poi nel 1511.
Nella sua vedovanza si dedicò alle attività caritative, curando gli infermi, svolgendo opera pacificatrice nelle famiglie divise da contrasti interni. Fu presente nell’aiutare gli ammalati, durante la peste che imperversò a Ravenna; come la sua maestra Margherita, anche a lei ricorrevano le persone bisognose di consiglio o di essere liberate dai loro affanni.
Lo stesso padre Girolamo Maluselli, raccontò all’autore della ‘Vita’, che egli si trovava lontano da Dio e non si confessava da quattro anni, saputo della fama di questa devota vedova, andò a trovarla e a lei si confidò, ascoltando i suoi ammaestramenti, per cui andò a confessarsi e sentendo in sé una nuova speranza, lasciò tutti gli affetti terreni, per trasferirsi al servizio di Dio come sacerdote.
Gentile Giusti ebbe anche il dono della profezia e quello di operare guarigioni prodigiose; morì santamente a Ravenna il 28 gennaio 1530 e già nel 1537, papa Paolo III autorizzò un processo sui miracoli attribuiti alla sua intercessione e a quella di Margherita Molli.
Coadiuvò alla trasformazione della ‘Confraternita del Buon Gesù’, dopo la morte della fondatrice Margherita Molli, in ‘Congregazione dei Preti del Buon Gesù’, insieme al condiscepolo Girolamo Maluselli, approvata poi da papa Paolo III nel 1538 e soppressa da Innocenzo X nel 1651 e la cui attività fu molto attiva a Ravenna e in Romagna.
Le sue reliquie nel 1659, furono unite a quelle della beata Margherita Molli, nella chiesa del Buon Gesù di Ravenna e dopo altre traslazioni le reliquie delle due beate parenti, riposano nella Chiesa Arcipretale di S. Apollinare in Russi (Ravenna).
Il culto è di origine popolare e la loro celebrazione si ha nell’ultima domenica di Gennaio.
Autore: Antonio Borrelli
________________________________________
Gentile di nome e di fatto, viene data in sposa ad un uomo che gentile non è affatto. Figlia di un orafo veronese, si sposa giovanissima con un sarto di Ravenna, tal Giacomo soprannominato Pianella: non tanto per amore, quanto per convenienza, sulla base della quale i genitori (siamo nella seconda metà del Quattrocento) combinavano i matrimoni, spesso all’insaputa dei figli. E il sarto Giacomo era sicuramente un “buon partito”, visto il buon mestiere e la gran clientela che aveva. Grossolano, poco sensibile e per niente religioso, Giacomo si dimostra l’esatto contrario di Gentile, che per natura è sensibilissima, molto devota e assai delicata. Così il suo non lo si può certo definire un matrimonio felice: maltrattata e derisa dal suo uomo, Gentile avrebbe più di un motivo per mandare all’aria un matrimonio che, di fatto, è basato più che altro sull’interesse. Ad un certo punto c’è addirittura l’abbandono del tetto coniugale, perché Giacomo se ne va di casa e si trasferisce a Padova, lasciandola sola con due bimbi da allevare. Dicono abbia fatto le valigie per vergogna, perché, dopo aver denunciato la moglie per stregoneria, il vescovo di Ravenna in persona ha riconosciuto l’assoluta limpidezza, correttezza e religiosità di Gentile. Giacomo torna a casa quando gli fa comodo, parecchi anni dopo, e trova una moglie che nonostante tutto gli è stata fedele, ha allevato i figli (anche se uno è morto giovanissimo), ha continuato a pregare per la sua conversione. E avviene il miracolo della ritrovata unità familiare, con il cambiamento radicale dello suo stile di vita, grazie all’esempio della moglie che non ha mai cessato di amarlo. Giacomo muore poco dopo e Gentile, specializzatasi in pazienza, sopportazione e fedeltà, continua ad offrire il suo esempio di vedova dedita agli altri. Sembra che la sua missione specifica sia davvero quella di rendere migliore gli uomini che incontra: ne sa qualcosa Girolamo Maluselli, miscredente e violento, che dopo essersi confidato con lei ed aver ascoltato i suoi consigli, cambia vita e diventa sacerdote. Anche Leone, l’unico figlio rimastole e su cui Gentile riversa il suo affetto perché non segua l’esempio del padre, cambia vita e diventa sacerdote. Gentile, da parte sua, si ispira al modello di vita che le offre una sua lontana parente, Margherita, cieca e malandata per le aspre penitenze che si infligge. Ha rinunciato a tutti i suoi beni per donarli ai poveri, vive dell’altrui elemosina, prega e insegna il catechismo alle ragazze, è consultata da tutti perché ha il dono della profezia e con il suo esempio richiama i peccatori a conversione. Le sue preghiere sono particolarmente orientate verso l’unità dei cristiani e fonda la Confraternita del Buon Gesù, che si trasformerà in seguito nella “Congregazione dei Preti del Buon Gesù”. Margherita Molli muore il 23 gennaio 1505, Gentile Giusti il 28 gennaio 1530, ma ancora oggi, il paese di Russi e la zona di Ravenna riservano l’ultima domenica di gennaio per festeggiare insieme le due cugine, che dopo aver condiviso ideali e progetti di vita cristiana, riposano insieme in un’unica urna, circondate da una vivissima devozione.
Autore: Gianpiero Pettiti
742 - 28 gennaio 814
Patronato: Scuole francesi
Emblema: Corona, Scettro, Globo, Spada, Modellino di Aquisgrana, Manto d' ermellino
La canonizzazione di Carlomagno nel 1165 da parte dell'antipapa Pasquale III non è che un momento dello straordinario destino postumo dell'imperatore d'Occidente. Qui si ricorderà brevemente ciò che, nella sua vita e nella sua opera, ha fornito occasione a un culto in alcune regioni cristiane.
Nato nel 742, primogenito di Pipino il Breve, gli succedette il 24 settembre 768 come sovrano d'una parte del regno dei Franchi, divenendo unico re alla morte (771) del fratello Carlomanno. Chiamato in aiuto dal papa Adriano I, scese in Italia, contro Desiderio, re dei Longobardi, nell'aprile 774. In cambio d'una promessa di donazione di territori italiani al sommo pontefice, riceve il titolo di re dei Longobardi quando lo sconfitto Desiderio fu rinchiuso nel monastero di Corbie. Nel 777 iniziò una serie di campagne per la sottomissione e l'evangelizzazione dei Sassoni, capeggiati da Vitichindo. Dopo una cerimonia di Battesimo collettivo a Paderborn, la rivalsa dei vinti fu soffocata, nelle campagne del 782-85, con tremendi massacri, fra i quali quello di molte migliaia di prigionieri a Werden. Spintosi oltre i Pirenei, nella futura Marca di Spagna, Carlomagno subì nel,778 un grave rovescio a Roncisvalle. Nelle successive discese in Italia (781 e 787) stabilì legami con l'Impero d'Oriente (fidanzamento di sua figlia Rotrude col giovane Costantino VI), e s'inserì sempre più a fondo, attraverso i missi carolingi, nella vita di Roma. Consacrato re d'Italia e spinto a occuparsi del patrimonio temporale della Chiesa, non trascurò il suo ruolo di riformatore, continuando l'opera iniziata dal padre col concorso di S. Bonifacio. Nel 779, benché occupatissimo per le rivolte dei Sassoni, promulgò un capitolare sui beni della Chiesa e i diritti vescovili, e accentuò la sua azione riformatrice sotto l'impulso dei chierici e dei proceres ecclesiastici e, soprattutto, di Alcuino e di Teodulfo d'Orleans.
La celebre “Admonitio generalis” del 789 mostra a pieno la concezione di Carlomagno in materia di politica religiosa, richiamandosi all'esempio biblico del re Giosia per il quale il bisogno più urgente è ricondurre il popolo di Dio nelle vie del Signore, per far regnare ed esaltare la sua legge. Nascono da questa esigenza il rinascimento degli studi, la revisione del testo delle Scritture operata da Alcuino, la costituzione dell'omeliario di Paolo Diacono.
Al concilio di Francoforte del 794, Carlomagno si erge di fronte a Bisanzio come il legittimo crede degli imperatori d'Occidente, promotori di concili e guardiani della fede. Non è un caso che i testi relativi alla disputa delle immagini (Libri Carolini), benché redatti da Alcuino o da Teodulfo, portino il nome di Carlomagno. Pertanto, l'incoronazione imperiale del giorno di Natale dell'anno 800 non fu che il coronamento d'una politica che il papato non poté fare a meno di riconoscere, sollecitando la protezione del sovrano e accettandolo, nella persona di Leone III, come giudice delle sue controversie. Ma Carlomagno (come mostrano le origini della disputa sul “Filioque”) estese la sua influenza fino alla Palestina. La sua sollecitudine per il restauro delle chiese di Gerusalemme e dei luoghi santi mediante questue (prescritte in un capitolare dell'810) gli valse più tardi il titolo di primo dei crociati. Del patronato esercitato sulla Chiesa dalla forte personalità di Carlomagno restano monumenti documentari ed encomiastici negli “Annales”, che ricordano i concili da lui presieduti, le chiese e i monasteri da lui fondati.
La vita privata di Carlomagno fu obiettivamente deplorevole. E non si possono certo dimenticare due ripudi e molti concubinati, né i massacri giustificati dalla sola vendetta o la tolleranza per la libertà dei costumi di corte. Non mancano, tuttavia, indizi di una sensibilità di Carlomagno per la colpa, in tempi piuttosto grossolani e corrotti. Il suo biografo Eginardo informa che Carlomagno non apprezzava punto i giovani, sebbene li praticasse, e, per quanto la sua vita religiosa personale ci sfugga, sappiamo che egli teneva molto all'esatta osservanza dei riti liturgici che faceva celebrare, specialmente ad Aquisgrana (odierna Aachen), con sontuoso decoro. Cosi, quando mori ad Aquisgrana il 28 gennaio 814, Carlomagno lasciò dietro di sé il ricordo di molti meriti che la posterità si incaricò di glorificare. La valorizzazione del prestigio di Carlomagno assunse il carattere di un'operazione politica durante la lotta delle Investiture e il conflitto fra il Sacerdozio e l'Impero. La prima cura di Ottone I, nel farsi consacrare ad Aquisgrana (962), fu quella di ripristinare la tradizione carolingia per servirsene.
Nell'anno 1000, Ottone III scopri ad Aquisgrana il corpo di Carlomagno in circostanze in cui l'immaginazione poteva facilmente sbrigliarsi. Nel sec. XI, mentre Gregorio VII scorgeva nell'incoronazione imperiale di Carlomagno la ricompensa dei servigi da lui resi alla cristianità, gli Enriciani esaltarono il patronato esercitato dall'imperatore sulla Chiesa. Quando l'impero divenne oggetto di competizione fra principi germanici, Federico I, invocando gli esempi della canonizzazione di Enrico II (1146), di Edoardo il Confessore (1161), di Canuto di Danimarca (1165), pretese e ottenne dall'antipapa Pasquale III la canonizzazione di Carlomagno col rito dell'elevazione agli altari (29 dic. 1165). Egli pensò di gettare in tal modo discredito su Alessandro III, che gli rifiutava l'impero, e, insieme, sui Capetingi che lo pretendevano. E se più tardi Filippo Augusto, vincitore di Federico II a Bouvines nel 1214, si richiamò alle analoghe vittorie di Carlomagno sui Sassoni, lo stesso Federico II si fece incoronare ad Aquisgrana il 25 luglio 1215 e dispose, due giorni dopo, una solenne traslazione delle reliquie di Carlomagno. Intanto Innocenzo III, risoluto sostenitore della teoria delle “due spade”, ricordava che è il papa che eleva all'impero e dipingeva Carlomagno come uno strumento passivo della traslazione dell'impero da Oriente a Occidente. La grande figura di Carlomagno venne piegata a interpretazioni opposte almeno fino all'elezione di Carlo V.
Ma a parte le utilizzazioni politiche contrastanti, il culto di Carlomagno appare ben radicato nella tradizione letteraria e nell'iconografia. Il tono agiografico è già evidente nei racconti di Eginardo e del monaco di S. Gallo di poco posteriori alla morte dell'imperatore. Rabano Mauro, abate di Fulda e arcivescovo di Magonza, iscrive Carlomagno nel suo Martirologio. La leggenda di Carlomagno è soprattutto abbellita dagli aspetti missionari della sua vita.
A Gerusalemme, la chiesa di S. Maria Latina conservava il suo ricordo. Alla fine del sec. X si credeva che l'imperatore si fosse recato in Terrasanta in pellegrinaggio. Urbano II, nel 1095, esaltava la sua memoria davanti ai primi crociati. Nel 1100 l'avventura transpirenaica dei paladini si trasfigurò in crociata, attraverso l'interpretazione della Chanson de Roland. Ognuno ricorda la frequenza di interventi soprannaturali nelle “chansons de gestes”: Carlomagno è assistito dall'angelo Gabriele; Dio gli parla in sogno; simile a Giosué, egli arresta il sole; benché il suo esercito formicoli di chierici, benedice o assolve lui stesso i combattenti, ecc.
Dal sec. XII al XV si moltiplicano le testimonianze di un culto effettivo di C., connesse da un lato con la fedeltà delle fondazioni carolingie alla memoria del fondatore, dall'altro con l'atteggiamento dei vescovi verso gli Staufen, principali promotori del culto imperiale. A Strasburgo si trova un altare prima del 1175, a Osnabruck e ad Aquisgrana prima del 1200. Nel 1215, in seguito alla consacrazione di Federico II e alle cerimonie che l'accompagnarono, si stabilirono due festività: il 28 genn. (data della morte di C.), festa solenne con ottava, e il 29 dic., festa della traslazione. Roma rispose istituendo la festa antimperiale di S. Tommaso Becket, campione della Chiesa di fronte al potere politico; ma nel 1226 il cardinale Giovanni di Porto consacrò ufficialmente ad Aquisgrana un altare “in honorem sanctorum apostolorum et beati Karoli regis”. A Ratisbona, il monastero di S. Emmerano e quello di S. Pietro, occupato dagli Irlandesi, adottarono, nonostante l'estraneità dell'episcopato, il culto di Carlomagno che, secondo M. Folz, si andò estendendo in un’area esagonale con densità più forti nelle regioni di Treviri, di Fulda, di Norimberga e di Lorsch. Nel 1354, Carlo IV fondò presso Magonza, nell'Ingelheim, un oratorio in onore del S. Salvatore e dei beati Venceslao e Carlomagno. Toccato l'apogeo nel sec. XV, il culto di Carlomagno non fu abolito neppure dalla Riforma, tanto da sopravvivere fino al sec. XVIII in una prospettiva politica, presso i Febroniani.
In Francia, nel sec. XIII, una confraternita di Roncisvalle si stabilì a S. Giacomo della Boucherie. Carlo V (1364-80) fece di Carlomagno un protettore della casa di Francia alla pari di S. Luigi, e ne portò sullo scettro l'effigie con l'iscrizione “Sanctus Karolus Magnus”. Nel 1471, Luigi XI estese a tutta la Francia la celebrazione della festa di Carlomagno il 28 genn. Nel 1478, Carlomagno fu scelto come patrono della confraternita dei messaggeri dell'università e, dal 1487, fu festeggiato come protettore degli scolari (nel collegio di Navarra si celebrò fino al 1765, il 28 genn., una Messa con panegirico). Per queste ragioni il cardinale Lambertini, futuro Benedetto XIV, indicò nel caso di Carlomagno un tipico esempio di equivalenza fra una venerazione tradizionale e una regolare beatificazione (De servorum Dei beatificatione, I, cap. 9, n. 4).
Oggi il culto di Carlomagno si celebra solo ad Aachen, con rito doppio di prima classe, il 28 genn. con ottava; la solennità è fissata alla prima domenica dopo la festa di S. Anna. A Metten ed a Múnster (nei Grigioni) il culto è “tollerato” per indulto della S. Congregazione dei Riti.
Autore: Gerard Mathon Fonte:Enciclopedia dei Santi
Patronato: Albergatori, Viaggiatori, Macerata
Etimologia: Giuliano = appartenente alla 'gens Julia', illustre famiglia romana, dal latino
San Giuliano L'Ospitaliere, protettore della città, è rappresentato a Macerata dappertutto, come protagonista o come santo laterale, nelle chiese, sulle porte d'accesso intorno alle mura, nelle opere conservate in pinacoteca, nell'antico sigillo dell'università, nelle medaglie commemorative del comune, nei palazzi signorili, sugli stendardi.
La sua immagine più antica, a cavallo, è del 1326, una scultura in pietra un tempo nella Fonte maggiore e oggi nell'atrio della pinacoteca comunale; la più scenografica nelle chiesa delle Vergini mentre tiene in mano il modellino della città; la più moderna nel ciclo della vota del presbiterio del Duomo dove negli anni 30 è stata affrescata la storia della sua redenzione dopo un tragico, incredibile evento. Gustave Flubert ne aveva già tratto una novella-romanzo, Saint Julien l'Hospitalier, raccontando con tinte fosche la giovinezza di questo fiammingo patito per la caccia anche violenta, cavaliere infaticabile e carattere vendicativo che non aveva esitato a uccidere il padre e la madre coricati nel suo letto credendoli la moglie e il suo presunto amante.
Poi una vita di espiazione e di preghiera dedicata all'accoglienza dei poveri e al traghetto dei pellegrini da una riva all'altra di un periglioso fiume. Ma sull'identità del santo ci sono non pochi dubbi, in parte espressi anche dalla curia maceratese e che un viaggio a Parigi per confrontare la storia del San Giuliano cui è dedicato il duomo di Macerata con quella della chiesa gemella; Saint Julien-le Pauvre nel quartiere latino, non hanno chiarito del tutto. La chiesa parigina, costruita dai benedettini tra il 1170 e il 1240 su una originaria cappella del VI secolo dedicata a Saint Julien-l'Hospitalier, faceva parte della ventina di chiese edificate nei dintorni di Notre -Dame, tutte scomparse tranne quella. Situata nel cuore del centro universitario del XII e XIV secolo, fu luogo d'incontro di studenti e mastri, quando le lezioni si tenevano all'aria aperta, e al suo interno si riuniva l'assemblea per l'elezione del Rector Magnificus.
Pare che Dante vi ascoltò le lezioni di Sigieri e che certamente la frequentarono Alberto Magno, Tommaso d'Aquino e Petrarca e più tardi Villon e Rabelais. Solo quando furono costruiti nelle vicinanze i collegi della Montagne Sainte Geneviève tra i quali si impose quello della Sorbona, la chiesa perdette di importanza. Quanto al santo cui è intitolata, la fama popolare ha sempre fatto coincidere il Giuliano storico con l'ospitaliere, tant'è che in veste di traghettatore compare in piedi sulla barca in un bassorilievo medievale incastrato nella facciata numero 42 della rue de Galande, di fianco alla chiesa: nel vicino giardino, che la separa dalla Senna e dalla fiancata destra dell'imponente Notre-Dame, una fontana in bronzo, questa recente, porta scolpiti tutti intorno a cascata i fatti salienti della sua storia. Ma l'opuscolo predisposto dalla parrocchia di rito greco-melkita e il prete interpellato propendono per l'identificazione del santo con Giuliano martire di Brioude. Il Giuliano leggendario, al quale la voce popolare ha dato il nome di ospitaliere rendendolo patrono di fatto anche nella chiesa di Parigi, sarebbe perciò usurpatore del titolo e in ogni caso, come ribadisce anche l'attento custode, non sarebbe riconosciuto come santo dall'autorità ecclesiastica. Un bell'impiccio per tutte le chiese francesi, italiane e spagnole che lo hanno scelto come loro protettore.
E la reliquia del braccio sinistro conservata nel duomo di Macerata a chi dovrebbe appartenere? Il miracoloso ritrovamento avvenne il 6 gennaio del 1442, e l'atto notarile che lo descrive è depositato nell'archivio priorale mentre le ossa, dopo varie collocazioni, sono conservate in una urna d'argento cesellata dall'orafo Domenico Piani.
Quello che conta è che in nome del patrono, santo reale o possibile, si aggreghino interessi culturali e iniziative utili alla città proprio nel senso e nella direzione dell'"ospitalità". La pensa così il comitato "Amici di San Giuliano" che si è costituito con spirito attivo e che non si preoccupa tanto dei riconoscimenti ufficiali quanto il promuovere in suo nome in tempi tanto angoscianti il valore dell'accoglienza.
Il 14 gennaio 2001, riprendendo un'antica tradizione, è stata innalzata in cielo una stella luminosa in onore del santo e la sua storia raccontata per le vie, quasi in veste di banditore, dall'attore Giorgio Pietroni mentre risuonavano i canti della Pasquella, continuazione allegra di un evento che sarebbe durato troppo poco se esaurito nel giorno dell'Epifania.
Non è citato nel Martirologio Romano, mentre la Bibliotheca Sanctorum lo pone al 29 gennaio.
E' patrono della Diocesi e della città di Macerata che lo festeggiano il 31 agosto.
Autore: Donatella Donati
Firenze, 1332 - 29 gennaio 1361
Nata a Firenze nel 1332 da nobile famiglia, Villana Delle Botti col matrimonio dimenticò i suoi doveri cristiani, conducendo una vita dissipata nel fasto e frivolo ambiente dei mercanti fiorentini. La terrificante visione del demonio sullo specchio davanti al quale si pavoneggiava prima di partecipare a una festa mondana, segnò l'inizio della sua profonda conversione. Entrata nel Terz'Ordine della penitenza di san Domenico, condusse una vita di straordinaria austerità, di preghiera e di assistenza ai bisognosi, senza dimenticare i suoi doveri matrimoniali. Sopportò penose prove e, il 29 gennaio 1361 prima di morire, pur essendo agonizzante nel letto, volle indossare il bianco abito domenicano. È sepolta nella Basilica di Santa Maria Novella a Firenze ed é stata beatificata da Leone XII il 27 marzo 1824.
Martirologio Romano: A Firenze, beata Villana de Bottis, madre di famiglia, che, abbandonata la vita mondana, prese l’abito delle Suore della Penitenza di San Domenico e rifulse nella meditazione sulla passione di Cristo e nell’austera condotta di vita, mendicando anche per le strade l’elemosina per i poveri.
Villana Delle Botti, nata a Firenze da un noto e ricco mercante, visse al secolo di Santa Caterina da Siena, sentendo fin da giovinetta l’attrattiva per i santi silenzi del chiostro. Tuttavia suo padre la costrinse a sposarsi nel 1351 con Rosso Benintendi. La timida fanciulla non seppe opporre la forte volontà di Caterina da Siena e si trovò così trascinata nel turbinio delle feste mondane, che ben presto sedussero e allacciarono l’inesperto suo cuore. Ma Dio, geloso di quella anima, che aveva scelta per sé dall’infanzia, intervenne in modo insolito. Una sera, Villana, davanti a uno specchio sontuoso, splendida nella sua acconciatura, cercò invano di contemplare la sua figura. Un orribile mostro le stava davanti. Non era un’illusione, tutti gli specchi gli mostrarono il medesimo spettacolo. Allora capì, corse al convento Domenicano di S. Maria Novella e, ai piedi di un confessore, rinnovò il suo cuore in un profluvio di lacrime. Vestito l’Abito del Terz’Ordine intraprese una vita di generoso fervore. Una viva fiamma di carità la consumava letteralmente e fu favorita da sublimi favori. Sopportò con animo lieto penosissime prove, desiderandone ancora di più per conformarsi a Gesù Crocifisso. Amò e soccorse i poveri come solo sa fare una tenerissima madre. Mai venne meno ai suoi doveri familiari, vero modello di matrona cristiana. Sul letto dell’agonia, il 29 gennaio 1361, volle indossare il bianco Abito Domenicano e mentre le si leggeva la Passione, giunti alle parole: “Et inclinato capite emisit spiritum” dolcemente spirò. E’ sepolta nella Basilica di Santa Maria Novella, in una tomba marmorea opera di Bernardo Rossellino. Papa Leone XII il 27 marzo 1824 ha confermato il culto.
Autore: Franco Mariani
m. Chelles, Parigi, 680
Di origine anglosassone, Batilde durante un viaggio fu catturata da alcuni pirati e venduta in Francia, nel 641, ad Erchinoaldo, dignitario di corte di Neustria, che, dopo essere rimasta vedovo, voleva sposarla. L'ex schiava si rifiutò, accettando poi di sposare Clodoveo II re di Neustria e di Borgogna. Ebbe tre figli, Clotario III, Tierrico III e Childerico II. Nel 657 Batilde divenne vedova e quindi reggente del regno in nome del figlio Clotario; con la guida dell'abate Genesio, si diede alle opere di carità, aiutando i poveri e i monasteri. Lottò strenuamente contro la simonia e contro la schiavitù, che fu interdetta per i cristiani, mentre con proprio denaro restituì la libertà a moltissimi schiavi. Quando il figlio Clotario III raggiunse la maggiore età, Batilde si ritirò nel monastero di Chelles, nella diocesi di Parigi, che lei stessa nel 662, aveva fatto restaurare. Vi morì nel 680. Fu sepolta a Chelles, accanto al figlio Clotario III, morto nel 670. (Avvenire)
Martirologio Romano: A Chelles vicino a Parigi in Francia, santa Batilde, regina: fondò cenobi sotto la regola di san Benedetto secondo il costume di Luxeuil; dopo la morte del marito Clodoveo II, assunse il governo del regno dei Franchi e, durante il regno del figlio, visse i suoi ultimi anni nell’assoluta osservanza della regola di vita monastica.
Era di origine anglosassone, durante un viaggio fu catturata dai pirati e venduta in Francia nel 641, ad Erchinoaldo, dignitario di corte di Neustria, il quale poi rimasto vedovo, voleva sposarla.
L’ex schiava si rifiutò, accettando poi di sposare Clodoveo II re di Neustria e di Borgogna, antiche regioni della Gallia; ebbe tre figli, Clotario III poi re di Neustria e di Borgogna, Tierrico III che succedette a Clotario III e Childerico II re di Austrasia, regione orientale della Gallia.
Nel 657 Batilde divenne vedova e quindi reggente del regno in nome del figlio Clotario; con la guida dell’abate Genesio, si diede alle opere di carità, aiutando i poveri ed i vari monasteri.
Lottò strenuamente contro la simonia e contro la schiavitù, che fu interdetta per i cristiani, mentre con proprio denaro restituì la libertà a moltissimi schiavi.
Come per altre sante regine di quel lontano periodo storico, raggiunta la maggiore età il figlio Clotario III, si ritirò (prima del 673) nel monastero di Chelles, nella diocesi di Parigi, che lei stessa nel 662, aveva fatto restaurare per penitenza.
Nel monastero si mise umilmente al servizio delle religiose, lì visse per circa 7-8 anni morendo il 30 gennaio del 680; fu sepolta a Chelles, accanto al figlio Clotario III, morto prima di lei nel 670.
La sua tomba fu oggetto di pellegrinaggi di fedeli attirati dalla fama dei miracoli; nell’833 fu fatta una traslazione alla chiesa della Madonna di Chelles.
La festa religiosa della santa regina Batilde è al 26 gennaio.
Autore: Antonio Borrelli
Milano, 260/267 - 311/317
S. Savina nacque a Milano dalla nobile famiglia dei Valeri nel 260/267. Adulta, andò in sposa ad un patrizio lodigiano, forse della famiglia dei Trissino. Rimasta presto vedova, S. Savina si dedicò, essendo una fervente cristiana, ad opere di religione e di carità, soprattutto a favore dei perseguitati dell’ultima persecuzione di Diocleziano contro i cristiani. S. Savina fece seppellire nella propria casa, di nascosto, i corpi dei martiri Nabore e Felice, soldati della legione tebana, decapitati a Laus Pompeia (Lodi Vecchio) verso il 300-304. Cessata la persecuzione, Savina fece portare a Milano i corpi dei due martiri, trasportandoli su un carro alla presenza dei figli dell’imperatore. I corpi dei santi Nabore e Felice furono deposti nella cappella gentilizia dei Valerii. La traslazione dovette avvenire il 18 maggio del 310. Più tardi, dopo una vita spesa in veglie e preghiere, S. Savina morì (a. 311/317) e fu sepolta accanto ai “suoi” martiri.
Nel 1798, le reliquie di s. Savina e dei santi martiri Nabore e Felice furono traslate nella basilica di S. Ambrogio, dove a santa Savina è dedicata una cappella.
Secondo una tradizione, Savina traslò le reliquie dei martiri della legione tebana da Lodi a Milano, nascosti in una botte. Alle guardie delle porte di Milano, per poter passare senza problemi, santa Savina disse che la botte conteneva miele. Le guardie vollero controllare la botte e trovarono effettivamente del miele. Per questo, quel luogo fu poi chiamato Melegnano.
La liturgia ambrosiana festeggia S. Savina il 30 gennaio.
Autore: Francesco Roccia
+ Bulgaria, 30 gennaio 970
Pietro I (Petar I), zar dei bulgari, fu il terzo esponente della real casa bulgara ad ascendere agli onori degli altari, per dirla con un’espressione tipicamente occidentale. Prima di lui infatti furono riconosciuti santi il principe Bojan, martire, ed il sovrano Boris I, che aveva dato grande impulso all’introduzione del cristianesimo in terra bulgara.
Nato verso l’inizio del X secolo dal secondo matrimonio di Simeone I con la sorella di Giorgio Sursuvul, fu proprio lo zio materno ad esercitare un notevole influsso durante il periodo iniziale del suo regno. Nel 913 Pietro ebbe modo di visitare il palazzo imperiale di Costantinopoli, insieme al suo fratello Maggiore Michele. Per motivi a noi ignoti, però, Simeone destinò il primogenito al chiostro, designando Pietro quale suo successore. Eredita dunque il trono di Bulgaria il 27 maggio 927, questi volle inaugurare il suo regno con un’offensiva militare in Tracia, regione sotto il controllo bizantino, onde ostentare in patria ed all’estero di essere degno e valoroso successore di suo padre.
Per fortuna, però, ben presto si verificò un’inversione di rotta ed iniziarono i negoziati di pace tra le due potenze balcaniche. Nell’ottobre 927 Pietro giunse nei pressi di Costantinopoli e poté incontrare l’imperatore Romano I Lecapeno: fu finalmente siglata la tregua e quale sigillò di pace fu siglata l’unione sponsale fra lo zar bulgaro e la nipote dell’imperatore Maria, al quale fu mutato il nome in Irene, che etimologicamente in greco significa proprio “pace”. Le nozze si celebrarono l’8 novembre. Questa felice conclusione non fu che il frutto della politica già intrapresa da Simeone I ed egregiamente portata a compimento dal figlio: furono confermati i confini della Bulgaria ed il titolo di “zar” al sovrano bulgaro, inoltre venne sancita l’indipendenza di tale Chiesa nazionale rispetto al Patriarcato di Costantinopoli. L’autocefalia della Chiesa nazionale bulgara era stata unilateralmente proclamata già dieci anni prima da Simeone, ma ancora infatti mancava il riconoscimento delle due maggiori sedi episcopali dell’epoca: Roma e Costantinopoli. Il Patriarcato di Bulgaria ebbe sede a Preslav, ma la sua breve esperienza si concluse nel 971 con l’invasione bizantina.
Ai successi iniziali del regno di Pietro, si contrapposero però anche alcune defezioni. Intorno al 930 infatti il sovrano dovette fronteggiare una sommossa condotta dal suo fratello minore, Ivan, e questi venne dunque esiliato a Bisanzio. Anche il fratello maggiore, Michele, uscito dal monastero intraprese una ribellione ancor più ardua, ma cadde in battaglia. Il fratello più giovane, Bojan, fu accusato di essere un licantropo in mano al vescovo italiano Liutprando di Cremona, ma effettivamente non costituì una reale minaccia per l’autorità regia di Pietro. Approfittando del clima particolarmente acceso, il principe serbo Caslav Klonimirovic riuscì nel 931 a riottenere l’indipendenza per quei territori serbi caduti sotto il dominio bulgaro, con il tacito assenso bizantino. Pietro, dal canto suo, dovette affrontare anche le incursioni dei magiari, che suo padre aveva sconfitti e confinati in Pannonia nel 896. Forse dopo un’iniziale sconfitta, Pietro giunse a patti col nemico per farne un alleato contro la Serbia, concedendo loro di transitare in territorio bulgaro per raggiungere la Tracia e la Macedonia. In definitiva, il lungo regno di Pietro fu tutto sommato relativamente pacifico e, nonostante le non poche difficoltà incontrate, la Bulgaria divenne sempre più prospera ed ben amministrata. Fu un sovrano particolarmente generoso verso la Chiesa, tanto che le sue ingenti donazioni furono talvolta maliziosamente percepite quali fattore di corruzione nei confronti del clero. In realtà l’attenzione del monarca fu rivolta anche a coloro che avevano scelto una vita lontana dalle tentazioni del mondo secolare, come il celeberrimo asceta San Giovanni di Rila. Pietro si trovò anche a dover combattere le eresie diffuse da Bogomilo, consultandosi al riguardo anche con famosi eremiti e con il patriarca di Costantinopoli Teofilatto.
I rapporti con l’impero bizantino si deteriorarono alla morte dell’amata moglie Irene, verso l’anno 960. Vittorioso contro gli arabi, nel 966 l’imperatore Niceforo II Foca rifiutò di pagare il tributo annuale alla Bulgaria, lamentandosi dell’alleanza con i magiari, ed intraprese azioni militari sul confine. L’imperatore inviò inoltre un messaggero dal principe Sviatoslav Igorevich di Kiev per organizzare un attacco contro la Bulgaria dal nord. Sviatoslav nel 968 lanciò prontamente una campagna per arginare i bulgari oltre il Danubio, ma Niceforo II, stupito dal successo del suo alleato e sospettoso delle sue reali intenzioni, volle accelerare il processo di pace con la Bulgaria, nuovamente mediante matrimoni combinati. Due figli di Pietro furono inviati a Costantinopoli quali negoziatori ed ostaggi onorari. Nel frattempo Pietro era riuscito ad ottenere la ritirata delle forze kievane. Nonostante questo momentaneo successo, la Bulgaria dovette affrontare una nuova invasione da parte Sviatoslav nel 969: i bulgari furono sconfitti ancora ed al sovrano non restò che abdicare e ritirarsi a vita monacale. Gli succedette al trono il primogenito Boris II ed in seguito il figlio minore Romano. Pietro morì infine l’anno seguente il 30 gennaio.
A confronto con i successi militari conseguiti da suo padre, Pietro è stato tradizionalmente considerato un sovrano debole, che perse non solo le terre ma anche il prestigio, sotto il cui regno si indebolì la forza militare della nazione, cosicché il paese cadde in mano agli invasori stranieri e divenne un satellite bizantino. Questa visione è però stata messa in discussione dalla critica più recente, che tende piuttosto a porre in risalto la pace interna goduta dalla società bulgara durante questo lungo periodo ed a rivalutare il rapporto fra la Bulgaria ed i suoi vicini ancora semi-nomadi. La Chiesa indigena, come era prassi comune a quel tempo, canonizzò lo zar Pietro I, il cui culto fu assai popolare nel Medioevo. Il suo nome fu sovente chiamato in causa dai fautori dell’indipendenza della nazione in ambito sia politico che religioso. L’assenza del nome del santo zar Pietro I di Bulgaria nel Martyrologium Romanum non significa che questi non sia venerato dalla Chiesa Cattolica, ma semplicemente non è commemorato nel rito latino, principale ma non unico rito adottato dal cattolicesimo. Essendo infatti vissuto prima di un effettivo scisma con Roma, questo santo come l’imperatore Costantino compare talvolta nei calendari delle Chiese Cattoliche Orientali, cioè quelle talvolta impropriamente soprannominate “greco-cattoliche”. Naturalmente il culto del santo è particolarmente vivo nella Chiesa Ortodossa Bulgara, che oggi comprende la quasi totalità dei cristiani di tale nazione.
Autore: Fabio Arduino
Dublino, Irlanda, 1550 circa – 30 gennaio 1621
Il beato Francis Taylor (Proinsias Tàilliùr), secondogenito di Robert Taylor di Swords e di Elizabeth Golding, nacque nel 1550. La sua era una famiglia di nobili proprietari terrieri della Contea a nord di Dublino e per generazioni si era distinta nella vita amministrativa e commerciale di quella città. Padre di sei figli, Francis Taylor per oltre trent'anni rimase fedele alla tradizione «di famiglia e lavorò in varie strutture cittadine. Nel 1593 venne eletto sindaco di Dublino.
Per i Cattolici la situazione andò sempre più peggiorando, specialmente dopo la sconfitta della resistenza cattolica irlandese contro il potere protestante dell'Inghilterra nel 1603. Ben presto i Cattolici furono estromessi dai pubblici uffici e il governo iniziò ad organizzare un Parlamento composto in maggioranza da Protestanti. Francis Taylor venne eletto membro del Parlamento irlandese, ma un sindaco protestante invalidò l'elezione. Fu allora nel 1613 o all'inizio del 1614 che Francis Taylor fu imprigionato. Preferì soffrire piuttosto che rinnegare la propria fede. Mori in prigione il 10 gennaio 1621, dopo sette anni di sofferenza, accettate con grande pazienza. E’ stato beatificato da Papa Giovanni Paolo II il 27 settembre 1992.
Martirologio Romano: A Dublino in Irlanda, transito del beato Francesco Taylor, martire, che, padre di famiglia, patiti sette anni di carcere per la sua fede cattolica, sfinito dalle tribolazioni e dalla vecchiaia, coronò il suo martirio sotto il re Giacomo I.
Appartiene ad una delle più illustri famiglie romane: quella dei Marcelli. Nata verso il 330, rimane orfana del padre. Sposatasi da giovane dopo sette mesi rimane vedova e lo spirito ascetico la conquista e rifiuta le seconde nozze. Il suo palazzo diventa un luogo dove ove confluiscono altre nobili romane come Sofronia, Asella, Principia, Marcellina, Lea. Lo stesso vescovo di Alessandria, Pietro, nel 373 è suo ospite. E proprio dopo il 373 la casa di Marcella diventa un centro di propaganda monastica. Riservatezza, penitenza, digiuno, preghiera, studio, vesti dimesse caratterizzano la vita quotidiana come risulta dalle lettere di san Girolamo, divenuto dal 382 il direttore spirituale del gruppo ascetico. Nella domus di Marcella entravano vergini e vedove, preti e monaci per intrattenersi in conversazioni sulla Sacra Scrittura. Verso la fine del IV sec. si trasferisce in un luogo isolato vicino a Roma dove fa ritorno nel 410 per timore dell'invasione gota. Muore nello stesso anno. (Avvenire)
Etimologia: Marcella, diminutivo di Marco = nato in marzo, sacro a Marte, dal latino
Martirologio Romano: A Roma, commemorazione di santa Marcella, vedova, che, come attesta san Girolamo, dopo avere disprezzato ricchezze e nobiltà, divenne ancor più nobile per povertà e umiltà.
Alcune lettere di s. Girolamo, in particolar modo l'Ep. 127, alla vergine Principia, discepola di Marcella, costituiscono le fonti principali per la vita della santa.
Appartenne ad una delle più illustri famiglie romane: quella dei Marcelli (secondo altri dei Claudi). Nacque verso il 330, ma non ebbe la giovinezza felice, essendo ben presto rimasta orfana del padre. Contratto matrimonio in giovane età fu nuovamente colpita da un gravissimo lutto per la morte del marito avvenuta sette mesi dopo la celebrazione delle nozze. Questi luttuosi avvenimenti fecero maggiormente riflettere Marcella sulla caducità delle cose terrene tanto più che nella fanciullezza era rimasta assai affascinata dalle mirabili attività del grande anacoreta Antonio, narrate nella sua casa dal vescovo Atanasio (340-343).
Lo spirito ascetico propugnato dal monachesimo, consistente nell'abbandono di ogni bene mondano, andò sempre più conquistando l'animo della giovane vedova. Quando perciò le furono offerte vantaggiose seconde nozze col console Cereale (358), nonostante le premurose pressioni della madre Albina, oppose al ventilato matrimonio un netto rifiuto, motivato dal desiderio di dedicarsi interamente ad una vita ritirata facendo professione di perfetta castità.
Così Marcella, secondo s. Girolamo, fu la prima matrona romana che sviluppò fra le famiglie nobili i principi del monachesimo. Il suo maestoso palazzo dell'Aventino andò trasformandosi in un asceterio ove confluirono altre nobili romane come Sofronia, Asella, Principia, Marcellina, Lea; la stessa madre Albina si associò a questa nuova forma d i vita.
Più che di vita monastica in senso stretto può parlarsi di gruppi ascetici senza precise regole, ma ispirati ai principi di austerità e di disprezzo del mondo, propri della scuola egiziana, assai conosciuti attraverso la vita di s. Antonio e le frequenti visite di monaci orientali. Lo stesso vescovo di Alessandria, Pietro, fu nel 373 ospite della casa Marcella e narrò la vita e le regole dei monaci egiziani.
Porse proprio dopo il 373 la casa di Marcella divenne un vero centro di propaganda monastica. Riservatezza, penitenza, digiuno, preghiera, studio, vesti dimesse, esclusione di vane conversazioni furono il quadro della vita quotidiana quale risulta dalle lettere di s. Girolamo, divenuto dal 382 il direttore spirituale del gruppo ascetico dell'Aventino. Nella domus di Marcella entravano vergini e vedove, preti e monaci per intrattenersi in conversazioni basate specialmente sulla S. Scrittura. Il sacro testo, specie il Salterio, non fu studiato solo superficialmente: per meglio comprenderne il significato Marcella imparò l'ebraico e sottopose al dotto Girolamo molte questioni esegetiche, come ne fanno fede varie lettere a lei dirette. Fra Girolamo e Marcella si strinse una profonda spirituale amicizia, continuata anche dopo la partenza del monaco per la Palestina.
Tuttavia questa donna fu di spirito più moderato tanto da non condividere pienamente le violente diatribe e le acerbe polemiche del dotto esegeta. Simile moderazione dimostrò nelle pratiche ascetiche; pur amando e professando la povertà non alienò in favore della Chiesa e dei poveri tutti i suoi beni patrimoniali, anche per non recare dispiacere alla madre. Né volle trasferirsi a Betlemme, nonostante una pressante lettera delle amiche Paola ed Eustochio. Preferì invece continuare la diffusione della vita ascetica e penitente in Roma; per molti anni infatti la sua domus dell'Aventino rimase un cenacolo ascetico specie fra le vergini e le vedove della nobiltà.
Verso la fine del IV sec. si trasferì in un luogo più isolato nelle vicinanze di Roma, forse un suo ager suburbanus, nel quale visse con la vergine Principia come madre e figlia. Rientrò in Roma nel 410 sotto il timore dell'invasione gota; in tale occasione Marcella subì percosse e maltrattamenti e a stento riuscì a salvare Principia dalle mani dei barbari, rifugiandosi nella basilica di S. Paolo.
Morì nello stesso anno e la sua festa è celebrata il 31 gennaio.
Autore: Gian Domenico Gordini Fonte: Enciclopedia dei Santi
m. 1533
Dopo la morte del suo sposo, si fece Terziaria francescana e si dedicò alle opere di carità, accogliendo i bisognosi nel proprio palazzo.
Martirologio Romano: A Roma, beata Ludovica Albertoni, che, dopo avere educato cristianamente i figli, alla morte del marito, entrata nel Terz’Ordine di San Francesco, portò aiuto ai poveri, scegliendo di divenire da ricca poverissima.
Della beata Ludovica degli Albertoni, esiste una pregevolissima statua, opera tutta di sue mani, del grande scultore Gian Lorenzo Bernini, che la raffigura coricata in estasi e posta sul suo sepolcro nella chiesa di S. Francesco a Ripa in Roma; questa bellissima scultura perpetua attraverso la storia dell’arte e del flusso turistico specializzato, la figura della beata romana.
Ludovica nacque nel 1474 a Roma dalla nobile famiglia degli Albertoni, orfana del padre in tenera età, fu allevata dalla nonna materna e da alcune zie, perché la madre si era risposata.
A venti anni, contro i suoi desideri, fu data in sposa al nobile Giacomo della Cetera, che comunque amò devotamente e dal quale ebbe tre figlie. Nel 1506 a 32 anni, rimase vedova ed allora entrò nel Terz’Ordine Francescano, prendendo a vivere una vita tutta dedicata alla preghiera, meditazione, penitenza e opere di misericordia, come quelle di dare una dote per maritare le ragazze povere e la visita ai poveri ammalati nei loro miseri tuguri.
Con la sua generosità diede fondo a tutti i suoi beni, fra la contrarietà dei parenti per tanta liberalità. Il Signore le diede il dono dell’estasi, che all’epoca dovevano essere molto note, se dopo la sua morte, avvenuta il 31 gennaio 1533, lo scultore Bernini la raffigura proprio nell’atto di una estasi.
La beata Ludovica ebbe subito un culto pubblico dopo la morte, culto che fu definitivamente confermato da papa Clemente X il 28 gennaio 1671.
Una ricognizione delle reliquie fu fatta il 17 gennaio 1674 quando le sue spoglie furono deposte nel magnifico sepolcro marmoreo di S. Francesco a Ripa, dove sono tuttora.
Autore: Antonio Borrelli
Cagliari, 14 novembre 1812 - Napoli, 31 gennaio 1836
Maria Cristina di Savoia, figlia del re Vittorio Emanuele I e di Maria Teresa d’Asburgo, ricevette dai pii genitori una solida formazione cristiana. Nel 1832 sposò Ferdinando II, re delle Due Sicilie, e nel duplice stato di moglie e di regina fu modello luminoso di ogni virtù. Vera madre dei poveri, seppe farsi carico delle sofferenze del suo popolo, per la cui promozione ideò ardite opere sociali. Morì ancora giovane, dopo aver dato alla luce il primogenito Francesco, tra l’unanime compianto della famiglia reale e del popolo napoletano. È stata beatificata il 25 gennaio 2014 a Napoli, nella Basilica di Santa Chiara, dove il suo corpo era stato sepolto. La sua memoria liturgica, per la diocesi di Napoli, cade il 31 gennaio, giorno della sua nascita al Cielo.
Da duecento anni si parla della regina Maria Cristina di Savoia, figlia di Vittorio Emanuele I (1759-1824) e di Maria Teresa d’Asburgo Lorena (1773-1832), perché il suo ricordo è ancora molto vivo, testimonianza di un profondo legame che esiste fra lei e il popolo del Sud, che fece suo. Ventiquattro anni appena di vita e tre anni di regno sono stati sufficienti per lasciare un’impronta indelebile nella storia: settentrionale per carattere e abitudini, è tuttora venerata come santa nel Mezzogiorno d’Italia.
Nacque il 14 novembre 1812 a Cagliari, dove Casa Savoia si trovava in esilio, essendo il Piemonte occupato dalle forze napoleoniche. Subito venne consacrata a Maria Santissima. Adolescente, dopo l’abdicazione del padre Vittorio Emanuele I a favore di Carlo Felice (1765-1831), il soggiorno a Nizza, il trasferimento a Moncalieri (dove il padre morì) e dopo una breve sosta a Modena, si stabilì con la madre e la sorella Maria Anna (1803-1884), che diverrà Imperatrice d’Austria, a Palazzo Tursi nella città di Genova. Tutte e tre nel 1825 decisero di recarsi a Roma per l’apertura dell’Anno Santo: la paterna benevolenza di Papa Leone XIII, la solennità delle sacre funzioni, la visita alle numerose chiese, ai tanti monasteri e alle catacombe fecero accrescere d’intensità la fede di Maria Cristina.
Appena ventenne, dopo la morte della madre, lasciò Genova, sola ed affranta, per volere di Re Carlo Alberto (1798-1849), che la invitò a raggiungere Torino. A sorreggerla e confortarla in tanto succedersi di lutti e distacchi, non le rimase che la sua salda e forte fede, così forte che avrebbe desiderato divenire monaca di clausura, ma Carlo Alberto, la Regina Maria Teresa di Toscana (1801-1855) e l’entourage di Corte cercarono di dissuaderla, ricordandole le ragioni di Stato. Infine, il suo direttore spirituale, l’olivetano Giovan Battista Terzi, fece cadere ogni sua resistenza. Scriverà: «Ancora non capisco come io abbia potuto finire, col mio carattere, per cambiare parere e dire di sì; la cosa non si spiega altrimenti che col riconoscervi proprio la volontà di Dio, a cui niente è impossibile». Il 21 novembre 1832 nel Santuario di Nostra Signora dell’Acquasanta, presso Veltri, venne celebrato il matrimonio con Ferdinando II delle Due Sicilie (1810-1859). La Regina decise, in accordo con il Re, che una parte del denaro destinato ai festeggiamenti per le loro nozze fosse utilizzato per donare una dote a 240 spose e per riscattare un buon numero di pegni depositati al Monte di Pietà.
Il suo credo cattolico non fu un sentimento, ma un fatto di vita: ogni giorno assistette alla Santa Messa; non giunse mai al tramonto senza aver recitato il Rosario; suoi libri quotidiani furono la Bibbia e l’Imitazione di Cristo; partecipò intensamente agli esercizi spirituali; fermò la carrozza, ogni qual volta incontrasse il Santo Viatico per via e si inginocchiò anche quando vi fosse fango… in cappella tenne lungamente lo sguardo sul Tabernacolo per meglio concentrarsi su Colui ch’era padrone del suo cuore. Affidò la protezione della sua esistenza a Maria Santissima e donò il suo abito da sposa al Santuario di Santa Maria delle Grazie a Toledo, dove tuttora si conserva con venerazione.
Non si occupò del governo dello Stato, ma fu assai benefica la sua influenza sul marito, che con coraggio si oppose alle idee risorgimentali e liberali. «Cristina mi ha educato», soleva dire Ferdinando II, avvezzo all’uso di espressioni talvolta indecenti, ed ella divenne la sua preziosa consigliera, trasformandosi nel suo «Angelo», come egli stesso la chiamava. Benedetto Croce riferisce che Maria Cristina ottenne per molti condannati a morte la grazia e fra questi persino Cesare Rosaròll (1809-1849), il quale cospirò per uccidere Ferdinando II.
Fu donna di intelligenza non comune, colta ed esperta in discipline come la fisica e la classificazione delle pietre preziose. Le eccezionali esperienze mistiche e di estasi arricchirono il suo profondo cammino spirituale. Inoltre la sua umiltà e la sua carità erano immense e conquistarono i napoletani: inviava denaro e biancheria, dava ricovero agli ammalati, un tetto ai diseredati, assegni di mantenimento a giovani in pericolo morale, sosteneva economicamente gli istituti religiosi e i laboratori professionali, togliendo dalla strada gli accattoni.
L’opera più grande legata al suo nome fu la «Colonia di San Leucio», con una legislazione ed uno statuto propri, dove le famiglie avevano casa, lavoro, una chiesa ed una scuola obbligatoria. L’attività produttiva era basata sulla lavorazione della seta che veniva esportata in tutta Europa.
Il 16 gennaio 1836 nacque Francesco II, l’ultimo Re di Napoli, che verrà detronizzato dalla nefasta e massonica impresa garibaldina. Ma il parto condusse alla morte la giovane Maria Cristina, morte che lei stessa aveva predetto e che accolse con rassegnazione, nella gioia di dare al mondo una nuova creatura di Dio. Era il 31 gennaio e le campane suonarono il mezzogiorno. Maria Cristina, con in braccio il tanto atteso Francesco, giunto dopo tre anni di matrimonio, lo porse al sovrano, affermando: «Tu ne risponderai a Dio e al popolo… e quando sarà grande gli dirai che io muoio per lui».
Rivestita del manto regale, adagiata nell’urna ricoperta di un cristallo, venne trasportata nella Sala d’Erede per l’esposizione al pubblico. Per tre giorni il popolo sfilò in mesto pellegrinaggio per rivedere per l’ultima volta la «Reginella Santa», come ormai tutti la chiamavano. La salma venne tumulata nella Basilica di Santa Chiara (la stessa che accoglie le spoglie anche di Salvo d’Acquisto), dove si trova tuttora. Subito si verificarono fatti prodigiosi grazie alla sua intercessione. Pio IX nel 1859 firmò il decreto di introduzione della sua causa di beatificazione. Nel 1958 l’autorità ecclesiastica dispose una ricognizione del corpo della Venerabile e, nonostante i danni provocati dal tempo, dall’umidità e dall’incuria, esso risultò intatto.
In seguito alla promulgazione del decreto su un miracolo ottenuto per sua intercessione, autorizzato il 2 maggio 2013, Maria Cristina di Savoia è stata beatificata nella Basilica di Santa Chiara a Napoli il 25 gennaio 2014. La sua memoria liturgica è stata fissata al 31 gennaio, giorno della sua nascita al Cielo.
Autore: Cristina Siccardi
Infanzia e prima educazione
Maria Cristina nacque a Cagliari il 14 novembre 1812, mentre i genitori, Vittorio Emanuele I di Savoia e Maria Teresa d’Asburgo Lorena, erano in esilio. Fu subito consacrata alla Madonna dalla regina sua madre, consacrazione che fu poi rinnovata da Maria Cristina stessa, appena fu in grado d’intendere e volere.
Nel 1815 le quattro principesse, Maria Beatrice, le gemelle Marianna e Maria Teresa e Maria Cristina raggiunsero Torino insieme alla madre, dove il re aveva fatto ritorno un anno prima, essendo mutate le condizioni politiche. Le principesse crescevano a corte in un ambiente molto religioso, guidate dalla regina e dal padre confessore, l’olivetano Giovan Battista Terzi. Maria Cristina, come le sorelle, si formò una cultura consona ad una principessa, unita a una spiritualità profonda.
L’esilio a Nizza e la residenza a Genova
Quando ebbe nove anni, suo padre, re Vittorio Emanuele I, dovette rinunciare al trono: dopo un periodo d’esilio a Nizza, si stabilì con tutta la famiglia a Moncalieri, dove morì dopo tre anni, nel 1824.
Nei due anni successivi, Maria Cristina partecipò insieme alla madre ed alla sorella Marianna ai riti d’apertura del Giubileo del 1825 a Roma. Al ritorno si stabilì a Genova, riducendo le sue attività alla formazione e alla conduzione della casa. Quand’ebbe vent’anni le morì anche la madre: suo unico conforto rimase padre Terzi.
Sposa per ragion di Stato
Ritornò a Torino per disposizione del re Carlo Alberto, dove però le incomprensioni in cui si venne a trovare a corte la fecero molto soffrire. Lì sorse in lei il desiderio di diventare suora di clausura, ma il suo direttore spirituale la dissuase: sapeva infatti che Carlo Alberto che l’aveva destinata come sposa al re di Napoli Ferdinando II. Maria Cristina, dunque, lei accettò la richiesta di matrimonio e la ragion di Stato come volontà di Dio.
Il rito religioso avvenne a Genova il 21 novembre 1832, nel santuario di Maria SS. dell’Acqua Santa. Il 26 novembre, gli sposi s’imbarcarono per Napoli, dove giunsero il giorno 30: sotto una pioggia torrenziale, furono accolti da una folla festante ed entusiasta.
Una vita di preghiera e carità
Maria Cristina iniziò il suo regno accanto al ventiduenne Ferdinando, che già regnava da tre anni. A corte leggeva ogni giorno la Bibbia e l’Imitazione di Cristo e la sua religiosità fu ben presto conosciuta nel palazzo e dal popolo. Quando era per strada in carrozza e incontrava un sacerdote con il Viatico per qualche ammalato, faceva fermare la carrozza, scendeva e si inginocchiava a terra, anche nel fango delle strade di allora. Fece in modo che a tutti a corte potessero partecipare alla Messa nei giorni festivi.
La carità verso i bisognosi, l’occupò in pieno: si dice che padre Terzi avesse presso di sé un baule pieno di ricevute di chi aveva avuto un beneficio. Provvide, d’accordo con il re, che una parte del denaro destinato ai festeggiamenti per il loro matrimonio, venisse usato per dare una dote a 240 giovani spose e al riscatto di un buon numero di pegni depositati al Monte di Pietà.
L’attesa di un erede
Dopo tre anni di sposa, la mancanza di un figlio che non veniva, faceva molto soffrire Maria Cristina, che pregava incessantemente per questa ragione: finalmente, nel 1835, si accorse di aspettare un bambino.
Passò gli ultimi mesi di gravidanza nella reggia di Portici per stare più calma, ma aveva una sorta di presentimento. All’avvicinarsi del parto, scriveva alla sorella, duchessa di Lucca: «Questa vecchia va a Napoli per partorire e morire».
La morte
In effetti, il futuro re Francesco II nacque il 16 gennaio e già il 29 Maria Cristina era morente per complicazioni sopravvenute. Prendendo in braccio il tanto atteso erede e porgendolo al re suo marito, disse: «Tu ne risponderai a Dio e al popolo… e quando sarà grande gli dirai che io muoio per lui».
Il 31 gennaio 1836, in piena comunione con Dio, si addormentò per sempre fra la costernazione generale. Era poco più che ventitreenne ed era stata regina per appena tre anni.
I solenni funerali furono celebrati l’8 febbraio, ma il suo corpo rimase fino al 31 gennaio 1858 nella stanza dei depositi reali, insieme ai resti degli altri esponenti della famiglia dei Borboni. Le autorità ecclesiastiche, a fronte della fama di santità che già in vita aveva circondato la regina Maria Cristina, disposero la ricognizione del corpo e la sua traslazione nella cappella dedicata a san Tommaso Apostolo nella Basilica di Santa Chiara a Napoli.
Il processo di beatificazione
In seguito, anche per via delle grazie che il popolo di Napoli attribuiva alla sua intercessione, per la “Reginella santa” s’iniziarono le pratiche per la beatificazione. Il Cardinale arcivescovo di Napoli, il Venerabile Sisto Riario Sforza, nel 1852 avviò il Processo sulla fama di santità, virtù e miracoli. In seguito, con l’introduzione della Causa a opera del Beato papa Pio IX il 9 luglio 1859, iniziò la fase romana, ossia il Processo apostolico. Il 6 maggio 1937 papa Pio XI firmò il decreto con cui Maria Cristina veniva dichiarata Venerabile.
Tuttavia, negli anni seguenti, la causa subì un rallentamento a causa della seconda guerra mondiale, che causò anche il bombardamento di Napoli e la distruzione della chiesa e del monastero di Santa Chiara. In seguito, fu proclamata la Repubblica in Italia e re Umberto II di Savoia andò in esilio.
Nel 1958, in seguito ai lavori di restauro del complesso di Santa Chiara, fu disposta una ricognizione del corpo della Venerabile: fu trovato intatto e riconoscibile, nonostante il trascorrere del tempo e la situazione d’incuria in cui era stato rinvenuto. A quel punto, Umberto II domandò di riattivare la causa.
Uno sviluppo notevole si ebbe con la costituzione dei Convegni di Cultura Maria Cristina, che si resero nuova parte attrice della causa: a quel punto, venne nominato anche un nuovo postulatore.
Il miracolo per la beatificazione
Tra le numerose grazie attribuite all’intercessione della Venerabile Maria Cristina, venne presa in esame dal nuovo postulatore una della quale fu possibile rinvenire la documentazione processuale, conservata nell’Archivio della Postulazione generale dei Frati Minori.
Si trattava dell’asserita guarigione di Maria Vallarino, malata dal giugno 1866, da tumore maligno scirroso al secondo stadio alla mammella destra e tumore incipiente anche alla mammella sinistra. La datrice di lavoro della donna, la marchesa Antonia Carrega, la fece visitare da due specialisti di Genova, che le diedero diagnosi negativa.
Dopo aver rifiutato un’operazione che comunque non avrebbe risolto la situazione, Maria si affidò all’intercessione della regina Maria Cristina: ingerì un frammento di tessuto a lei appartenuto e invocò il Signore: «Gesù, o buon Gesù, glorificate questa vostra Serva». Il male regredì subito e, dopo una settimana, fu dichiarato scomparso. Maria Vallarino morì 39 anni dopo e non ebbe alcuna recidiva.
L’esame del miracolo e la beatificazione
La “Positio super miraculo”, che riportava i documenti dei processi svolti negli anni 1872-1888 presso la Curia di Genova, venne esaminata dai Medici nella Consulta del 29 ottobre 2009, dai Teologi nel Congresso del 26 maggio 2012 e infine dai Cardinali e Vescovi della Congregazione delle Cause dei Santi il 9 aprile 2013. Infine, il 2 maggio 2013, papa Francesco autorizzava la promulgazione del decreto che dichiarava miracolosa e ottenuta per intercessione della Venerabile Maria Cristina di Savoia la guarigione esaminata.
Il rito della beatificazione si è svolto il 25 gennaio 2014 nella Basilica di Santa Chiara a Napoli, presieduto dal cardinal Angelo Amato come delegato del Santo Padre. La memoria liturgica della nuova Beata è stata quindi fissata al 31 gennaio, il giorno esatto della sua nascita al Cielo.
PREGHIERA
O Dio, che hai ornato
di sollecita e sapiente carità
la beata Maria Cristina,
perché con la sua testimonianza
contribuisse all’edificazione del tuo regno,
concedi anche a noi, sul suo esempio,
di operare il bene
attingendo alla vera ricchezza del tuo amore.
Per sua intercessione ottienici la grazia . . .
che con fiducia invochiamo.
Per Cristo nostro Signore.
Amen.
Comunicare notizie di grazie e favori a:
Postulazione della Causa
Via Santa Maria Mediatrice, 25
00165 Roma
e-mail: postgen@ofm.org
Per informazioni:
Convegni di Cultura Maria Cristina di Savoia
Via Cola Di Rienzo, 217 A - 00192 Roma
Tel. 06 6869740 – e-mail: convegni.f@tiscalinet.it
www.convegnidicultura.it
Autore: Antonio Borrelli ed Emilia Flocchini